Una sinistra ancora in cerca di una nuova identità

Written by Marcello Flores Thursday, 08 October 2009 17:24 Print

Negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino e al crollo del comunismo, la sinistra ha cercato di costruirsi una nuova identità senza riuscire a sfuggire alla sua tradiziona­le dicotomia: massimalismo e verbalismo rivoluzionario da una parte, compromesso parlamentare dall’altra. E senza riuscire a rispondere all’interrogativo se il 1989 abbia san­zionato il fallimento di un’esperienza storica (quella del co­munismo) o non invece la vittoria del capitalismo e la scom­parsa dall’orizzonte storico di un suo possibile antagonista.

Un evento di portata epocale come la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo che esso simboleggiava non poteva che avere un effetto straordinario – in termini di accelerazione e cambiamento – sull’identità dell’intera sinistra e, in particolare, sulla sinistra italiana, per le peculiarità che essa, storicamente, aveva conosciuto rispetto ad altre tradizioni (quella scandinava, britannica, tedesca e perfino francese, per alcuni aspetti più vicina, oltre a quella iberica).

Il fatto che negli anni e nei decenni successivi l’intera sinistra europea si sia interrogata su questioni comuni e sulla necessità di inventare (o reinventare) una strategia nuova rende evidente che la questione posta dal crollo del comunismo era di portata più generale, non certo riconducibile prevalentemente alle vicende italiane. In termini europei si potrebbe dire che il crollo del comunismo aveva posto con forza il dilemma di una possibile vittoria/ rifondazione della socialdemocrazia o quello della ricerca/invenzione di una “terza via”, come venne chiamata in mancanza di una definizione (“laburista”, “democratica”?) che appariva troppo generica e confusa.

Dietro questa contrapposizione – che conteneva posizioni più sfumate e altre che rimanevano incerte o tentavano una simbiosi difficile se non impossibile – si celava, naturalmente, una differente interpretazione che in sintesi si potrebbe riassumere così: il crollo del comunismo segnava, storicamente, il fallimento dell’esperienza iniziata nel 1917 con la rivoluzione russa, con il suo corollario di costruzione della Terza internazionale e dei partiti comunisti negli anni Venti e seguenti o rappresentava, piuttosto, la più evidente e drammatica conferma della vittoria del capitalismo e della scomparsa dall’orizzonte storico di una possibile alternativa a esso? Nel primo caso avrebbe avuto maggior peso una riflessione sull’ideologia e sull’identità della sinistra, sulle sue trasformazioni o sui tratti fondativi, sulla sua eredità; nel secondo la scelta di affrontare prevalentemente la sfida che poneva la nuova epoca storica, anche se alcuni dei suoi aspetti salienti e costitutivi (quelli che vennero poi riassunti col termine di globalizzazione) ancora non erano del tutto chiari ed evidenti.

Cosa è accaduto, di questa alternativa e contrapposizione, nella sinistra italiana e nel dibattito che ha accompagnato le trasformazioni politiche, ideologiche e organizzative successive al 1989? Una sintesi, ovviamente, non può che dar conto in modo parziale e sommario, e quindi carente e riduttivo, di quello che avvenne nei due decenni successivi al crollo del muro di Berlino. Riassumere e appiattire quel lungo dibattito può servire, tuttavia, come tentativo di comprendere gli aspetti costitutivi della trasformazione cui è stata soggetta la sinistra, e anche i suoi limiti, i suoi retaggi, le influenze molteplici cui fu sottoposta e il contesto più generale che contribuì non poco agli esiti aperti con cui oggi essa guarda a se stessa e soprattutto al suo futuro.

La scelta compiuta dalla dirigenza del PCI di apportare un cambiamento significativo – che non voleva essere solamente simbolico – alla natura stessa del partito e alla sua strategia arrivava in un momento caratterizzato non soltanto dalla fine del comunismo ma anche dalla crisi della socialdemocrazia. Essa si ridusse, tuttavia – per dinamiche non certo riconducibili, almeno in larga parte, al gruppo dirigente che volle la “svolta” – proprio alla sua dimensione simbolica e a una discussione “identitaria” che non aveva alle spalle, purtroppo, un adeguato e approfondito percorso (che non si era stati in grado di impostare e accelerare nell’ultimo decennio, diciamo almeno dallo “strappo” con l’URSS al momento dello stato d’assedio di Wojciech Witold Jaruzelski contro Solidarnosc, in Polonia).

Alla sfida del 1989 il PCI arrivò in una situazione di crisi che durava all’incirca da un decennio, dal fallimento dell’ipotesi del compromesso storico e della partecipazione all’area di governo. Negli anni Ottanta, alla rivendicazione poco convinta e puramente ripetitiva dell’antica diversità e identità (lanciata con orgoglio da Enrico Berlinguer ma di fatto poco più che un canto del cigno di ciò che essa aveva rappresentato in passato) si accompagnò un processo di omologazione agli altri partiti per sfuggire all’isolamento: ma si rimase in bilico tra la difficoltà ad operare con nettezza una discontinuità con il passato e la possibilità di porsi alla pari con gli altri – in termini di legittimazione – ma con un progetto sostanzialmente diverso e propositivo.

La lettura “minimalista” che la dirigenza comunista dette degli insuccessi del 1979 e del 1983 (e che il positivo risultato alle europee del 1984, con l’impatto emotivo per la morte di Berlinguer, sembrò rafforzare) impedì di cogliere pienamente i connotati sempre più secolarizzati e laici che la società stava assumendo, e che il partito socialista sembrava invece comprendere pur se in una dimensione di corporativismo, di sbocchi istituzionali miopi (tutta la questione della crescita del debito pubblico), di clientelismo e di pratica cinica del potere. Il tentativo di riaffermare la propria superiorità morale, di proporsi come perno di una opposizione di classe si accompagnò con l’esigenza di definire una nuova identità comunista, di fatto andando in una direzione opposta a quella seguita negli anni Settanta e privilegiando una difesa ideologica e corporativa in attesa di poter riprendere il cammino interrotto alla fine di quel decennio.

L’arroccamento difensivo degli anni Ottanta non aveva bloccato del tutto la revisione identitaria e l’aggiornamento politico-ideologico già iniziato da Berlinguer e poi proseguito sotto la segreteria Natta prima e Occhetto poi. La “revisione” operata dal PCI già negli anni Settanta e maggiormente esplicitata nel decennio successivo (scelta occidentale, valore universale della democrazia politica, accettazione del mercato, laicizzazione del partito) si presentava come uno smantellamento progressivo della vecchia identità, ma annebbiato dalla rivendicazione di un’opposizione e di diversità radicate nel passato, indebolendo così la convinta fiducia in una nuova strategia sempre più agli antipodi con l’ideologia identitaria di cui il partito era ancora fortemente intriso.

Il crollo del muro nel 1989 provocò un’accelerazione – proprio sul versante ideologico e simbolico – che rese improvvisamente debole la scelta di una lineare e progressiva trasformazione identitaria, che venne percepita come lenta e tardiva di fronte agli avvenimenti storici e alla loro forza dirompente, oppure come eccessiva e incapace di mantenere un legame “sentimentale” (che altro era, ad esempio, la rivendicazione del termine comunista da parte del Manifesto) che appariva l’unica possibilità di opposizione a un mondo le cui trasformazioni si stentavano a comprendere.

La necessaria volontà di mantenere il più possibile compatto il partito nella sua trasformazione ebbe come conseguenza proprio la sordina messa alle questioni ideologiche e simboliche nonché al problema del rapporto con il passato e della costruzione di una nuova identità, legittimando, di fatto, l’interpretazione di un “errore” storicamente necessario o giustificabile (la separazione drastica dalla socialdemocrazia) ma ormai superato dalla storia; e secondariamente la possibilità di riprendere una comune opzione socialista che avrebbe continuato a contrassegnare l’identità della sinistra. In termini assai schematici: il trauma del crollo del comunismo impedì di cogliere la crisi strutturale ma non eclatante della socialdemocrazia, illudendo della possibilità di una rifondazione dell’orizzonte socialista. Sul versante identitario e ideologico questo significò un richiamo generico a contrastare l’idea della fine della storia – e cioè quella visione integralista e riduttiva del capitalismo che sembrava al momento vincente – senza che esso fosse accompagnato da un processo serio di riflessione storica e di analisi del presente.

Il peso delle molteplici contingenze politiche rese difficile farlo, almeno fino alla metà degli anni Novanta (e forse oltre). Da una parte, la forte polemica col partito socialista, che a partire dal 1992 si concentrò in gran parte sulla questione morale, rese difficile una comune e condivisa riflessione sul passato del movimento socialista e operaio in Italia; dall’altra, la necessità di non approfondire la frattura con i neocomunisti e di non disorientare ulteriormente il partito aumentò le difficoltà di dialogo con quelle forze della società civile che credevano nella sua costruzione come punto di partenza di nuove aggregazioni e non soltanto come prosecuzione e adattamento di un’esperienza di lunga tradizione. Le questioni, diverse ma ugualmente significative nel creare una nuova fase politica, della lotta alla mafia e della crescita politica della Lega Nord, avrebbero potuto aprire nuovi spazi a una riflessione strategica e un’analisi non contingente, che però non prevalse per l’accelerarsi della crisi e per le scelte tattiche che vennero imposte dalla situazione.

Nella seconda metà degli anni Novanta la sinistra – non come blocco omogeneo ma a livello di singole personalità o di piccole minoranze – riprese a riflettere sul dilemma fra socialdemocrazia e terza via. L’esperienza angloamericana – del laburismo inglese e del clintonismo negli Stati Uniti – era quella che sembrava influenzarla maggiormente, soprattutto negli anni tra la fine e l’inizio del nuovo millennio e prima che l’11 settembre e le due consecutive Amministrazioni Bush mutassero in profondità il contesto internazionale. Parallelamente al crescente interesse di derivazione internazionale per la “terza via” – pur con tutte le difficoltà e ambiguità nel definirla e riempirla di contenuti – la vita politica italiana influenzò a sua volta il dibattito e le scelte relative alla nuova fisionomia identitaria e alla nuova progettualità strategica che la sinistra cercò di proporre. Quando sul versante internazionale si cercò – almeno da parte di alcuni – di confrontarsi con i temi della globalizzazione e delle sfide che essa portava con sé, a livello nazionale sembrò prevalere un riassunto dei più antichi e tradizionali difetti nella storia della sinistra e del movimento operaio.

Il confronto/conflitto che ha animato la sinistra italiana fin dal suo sorgere – quello tra massimalisti e riformisti (o meglio parlamentaristi, perché raramente capaci di promuovere effettive riforme) – si è continuato a manifestare in forme diverse anche nei periodi successivi, pur con l’innegabile ruolo giocato da un contesto diverso, che ne ha modificato spesso in maniera significativa le forme e soprattutto le apparenze della partecipazione politica. Perfino nel secondo dopoguerra, quando il legame del Partito comunista con l’URSS è stato certamente decisivo per almeno un trentennio della storia repubblicana, questa tradizionale dicotomia tra verbalismo rivoluzionario e compromesso parlamentare è stata presente e operante. Non si vuole negare, ovviamente, che entrambe abbiano anche svolto, nella pratica, un ruolo di difesa e accrescimento della democrazia – quando non anche, come nella Resistenza, di contributo fondamentale per riconquistarla – ma è certo che questa divisione della sinistra in forme così ripetitive è stato il motivo principale perché essa sia stata votata alla sconfitta nella sto ria italiana dalla fine dell’Ottocento all’ultima esperienza del secondo governo Prodi.

Ci si era illusi, con la costruzione dell’Ulivo e con la vittoria elettorale del 1996, che quella divisione fosse stata superata. Essa, invece, è stata alla base della caduta del governo Prodi e della sconfitta nelle elezioni nel 2001, della sconfitta del Prodi II e della débâcle nelle consultazioni del 2008. Caratteristica della divisione tra massimalisti e riformisti, infatti (o tra rivoluzionari e revisionisti se si preferisce) non è tanto il muoversi entro la cornice del capitalismo o per la fuoriuscita da esso – questione legata alle temperie ideologiche dei diversi periodi ma sempre estranea alle possibilità offerte dalla storia – quanto la logica di conquista del consenso dei ceti subalterni e popolari, o più recentemente di una parte significativa della popolazione. È questa la molla che stabilisce quanto diventi fondamentale la contrapposizione tra la partecipazione o meno al governo, l’uso prevalentemente parlamentare o extraparlamentare della propria azione politica; non certo l’individuazione di un programma (di una serie di riforme o di una strategia di conquista del potere) che rimane confinato ad un ruolo ideologico e di cemento identitario.

Il grande successo del primo governo dell’Ulivo non sono state, infatti, le riforme significative: anche se la riduzione del debito pubblico, l’ingresso nella moneta unica europea e la riduzione dell’inflazione sono stati certamente obiettivi importanti. Non è un caso, ad esempio, che tra il 1996 e il 2000 la riforma della scuola e dell’università sia stata a lungo rinviata e poi colpita dall’interno, da spinte corporative e sindacali e da divisioni legate a rendite di posizione più che da contrasti progettuali di ampio respiro.

La logica di costruzione del programma è sempre stata, di fatto, sacrificata alla conquista e al mantenimento del consenso, che costituisce l’eredità che la contrapposizione massimalismo/parlamentarismo ha lasciato nella sinistra. E questo anche di fronte alla prova storica che un programma riformatore può avere un forte appeal elettorale e che la incapacità di realizzarlo è invece foriera di disaffezione e sconfitta, a maggior ragione in un contesto in cui l’ambiguità sulla propria identità ha continuato a creare confusione (tra difensori dell’identità socialdemocratica e di una sintesi tra questa e il cattolicesimo popolare; con un richiamo al liberalismo e al mercato ma non sempre un’attenzione coerente alle tradizioni di libertà e difesa dei diritti di tradizione azionista, liberalsocialista, radicale, democratica). Era sul terreno dell’identità che doveva essere portato fino in fondo, con coerenza, il richiamo di Veltroni a stare da soli, facendo in modo che l’incontro tra identità diverse fosse possibile invece, senza inganni o infingimenti, su un programma di vere riforme (poche e chiare). Un incontro capace di comprendere anche chi si richiamava a una fantomatica fuoriuscita dal capitalismo o a un’idea un po’ giudiziaria e un po’ poliziesca della politica.

L’identità che un partito come il PD è oggi chiamato a costruire non può che essere “democratica” e tale definizione non può certo risultare la somma riduttiva di due tradizioni (la socialdemocratica e la cattolico popolare, entrambe ugualmente obsolete e incapaci di rispondere alle sfide della globalizzazione). Tuttavia, quell’aggettivo è troppo generico e non ha mai conosciuto, nella nostra storia (come invece è successo in altri paesi), fortuna e una coerente difesa. È attorno al significato della democrazia in questa fase storica che va portato avanti il processo di creazione della nuova identità della sinistra (certo, senza rifiuto della sua storia, ma anche con la consapevolezza della necessità di una forte discontinuità). Che è questione parallela (ma assai diversa) rispetto a quella della costruzione di un programma attorno a cui raccogliere uno schieramento per le riforme, da realizzare sul serio.