Essere archivisti nel XXI secolo

Written by Linda Giuva e Mariella Guercio Friday, 08 May 2009 18:08 Print

Attraversati da fenomeni contrastanti, gli archivi vivono una profonda crisi. La mancanza di risorse e di personale rappresenta sicuramente la causa delle difficoltà di questo periodo, ma il settore ha anche bisogno di idee nuove, di riflessioni sull’assetto storico, sui processi formativi e sulla qualità delle risposte da dare alle sfide della contemporaneità.

L’abbondanza come emergenza

La situazione in cui versa la memoria archivistica del nostro paese è per molti aspetti paradossale: da una parte, a causa del pericolo di implosione per la incontrollata quantità di materiale cartaceo prodotto da istituzioni pubbliche e private, e per il rischio di estinzione dovuto alla mancanza di procedure serie e di competenze adeguate per la conservazione a lungo termine dei documenti digitali; dall’altra parte, si registra un incremento significativo dell’interesse per tutto ciò che riguarda l’uso pubblico del passato (le giornate della memoria, i canali satellitari dedicati alla storia ecc.), ma nello stesso tempo si assiste a una riduzione dei livelli dell’attenzione pubblica nei confronti della gestione della documentazione archivistica.

Al centro di importanti e positivi fermenti di innovazione tecnologica che interessano sia i tradizionali archivi storici sia le più recenti produzioni documentarie digital born, le fonti archivistiche sono dominate da un’imponente e crescente ipertrofia cartacea che, lungi dall’essere debellata dall’uso sempre più massiccio delle Information and Communication Technologies (ICT) nei nostri uffici e nelle nostre case, nei rapporti ufficiali e in quelli privati, riempie edifici, stanze, depositi e determina un uso esponenziale e incontrollato di supporti cartacei (sia pure di limitato valore e di breve durata). Che questa abbondanza inflattiva della documentazione archivistica sia una caratteristica del mondo contemporaneo è un dato noto ai più esperti frequentatori dei nostri archivi ma anche agli amministratori che si trovano ogni giorno a dover cercare soluzioni che siano nello stesso tempo adeguate e poco costose. Alcune cifre e situazioni, tra le tante che potrebbero essere portate ad esempio, possono aiutarci a rendere più vivida l’immagine di questo stato di cose.

Un’indagine condotta nel 1993 per ricordare con autenticità l’anniversario della importante legge archivistica del 1963, aveva individuato 450 km lineari di archivi conservati nei depositi delle amministrazioni statali centrali e periferiche in attesa del loro ingresso negli Archivi di Stato. Che la situazione non sia migliorata negli anni successivi è provato da un’inchiesta più recente, ma anch’essa di qualche anno fa, condotta a Bologna, secondo cui negli scantinati degli uffici giudiziari del solo capoluogo bolognese giacciono 24 km di materiale archivistico pari al 75% del totale dei fondi conservati presso l’Archivio di Stato di Bologna e che coprono un arco cronologico di otto secoli. Il fatto che questo non sia solo un fenomeno italiano è provato da altre cifre e situazioni. Quelle che provengono da oltreoceano sono particolarmente persuasive. Stefano Vitali in un suo interessante saggio ricorda, ad esempio, che «a fronte di una massa documentaria prodotta dalle amministrazioni pubbliche statunitensi fra la Dichiarazione d’indipendenza e il 1914, assommante a complessivi 500.000 metri lineari, il tasso di produzione documentaria è balzato a 100.000 metri l’anno a partire dagli anni Trenta (l’epoca del New Deal) ed è ulteriormente cresciuto nel dopoguerra fino a giungere a 1.000.000 di metri negli anni Settanta. Alla fine degli anni Ottanta il solo governo federale degli USA produceva ogni quattro mesi una quantità di documenti pari a quella prodotta nei 124 anni intercorsi fra la presidenza di George Washington e quella di Woodrow Wilson».1 Come è noto a chi lavora con la documentazione contemporanea, la sovrapproduzione documentaria è la conseguenza delle vicende storiche del Novecento. L’estensione del ruolo dello Stato nell’economia e nel sociale dopo gli anni Trenta, con la conseguente crescita degli apparati amministrativi e burocratici, la riarticolazione delle istituzioni pubbliche con la formazione di poteri sovranazionali e governi locali, la messa in crisi del modello statuale di derivazione ottocentesca che «si è sfarinato in un pulviscolo amministrativo»2 hanno contribuito ad una impressionante e incontrollabile produzione cartacea. Le tecnologie, poi, hanno fatto la loro parte. La fotocopiatrice e il fax hanno contribuito a riempire fascicoli di documenti inutilmente copiati e ricopiati. Anche perché l’illusione di poter provvedere ai bisogni di reperibilità veloce dei documenti attraverso l’uso non regolato delle copie ha indebolito (o è stato il prodotto?) la ricerca e l’applicazione di metodologie e di strumenti archivistici seri per la conservazione ordinata ed efficiente, comunque funzionale alle esigenze amministrative dell’ente. E mentre cresce anche oggi, nonostante i sistemi di office automation presenti negli uffici, la documentazio ne cartacea, quegli stessi meccanismi amministrativi producono un impoverimento della portata informativa dei documenti stessi. «Of all documents and materials created in the course of business conducted by the United States Federal government, only 1-3% are so important for legal or historical reasons that they are kept by us forever » è scritto nel sito ufficiale dei National Archives di Washington.3 Forse è una percentuale eccessiva quella indicata dagli archivisti statunitensi ma è certo che, come gli storici contemporaneisti sanno bene, non è facile ricostruire decisioni, individuare responsabilità, definire un quadro storico convincente nel sovrabbondante universo documentario contemporaneo.

Indipendentemente dalle problematiche connesse con le metodologie di analisi delle fonti, qui ci preme tuttavia sottolineare quanto, nel tempo di internet e delle risorse digitali, la situazione degli archivi cartacei del Novecento, lungi dall’essere risolta, si presenti drammatica. Al di fuori degli Archivi di Stato, giacciono chilometri e chilometri di documentazione novecentesca di origine statale la cui età è ormai matura per essere acquisita come fonte storica. Se a questa aggiungiamo la documentazione di enti statali diventati pubblici (pensiamo agli uffici periferici del ministero delle Finanze e del tesoro) che in quanto tali sono sottratti all’obbligo di versare agli Archivi di Stato, vediamo come il panorama si complica e si drammatizza. Del resto non godono di buona salute neanche gli archivi delle Regioni. Queste ultime, ormai, avrebbero dovuto attivare le strutture conservative per la concentrazione di deposito degli archivi prodotti dalle numerose strutture amministrative e avrebbero dovuto predisporre le strategie per la valorizzazione storica e culturale della documentazione archivistica prodotta in questi quasi quarant’anni di attività. In realtà solo poche Regioni hanno intrapreso questo programma. Eppure questa strada potrebbe rappresentare una proposta per fare degli archivi delle Regioni un modello sperimentale di archivio pubblico territoriale da affiancare agli Archivi di Stato, divenendo un punto di riferimento per tutti quegli altri archivi pubblici e privati presenti sul territorio a rischio di dispersione e di perdita o semplicemente incapaci di fare fronte all’attuazione dei requisiti minimi per la conservazione e la comunicazione del patrimonio conservato.

È ovvio che per porre rimedio a questa situazione occorrono risorse finanziarie e umane. Ma non sempre questo è sufficiente. Un esempio per tutti. All’indomani del terremoto del novembre 1980, l’amministrazione archivistica poté contare su consistenti fondi finanziari per far fronte all’emergenza del momento. Alcuni istituti ne approfittarono intelligentemente per incrementare e rilanciare l’attività istituzionale e per creare condizioni ottimali per il recupero della documentazione. Fu il caso della Basilicata, che tuttavia, nel 2006, come scrive l’attuale direttrice dell’Archivio di Stato di Matera, Antonella Manupelli, rischia di vedere tutti gli investimenti vanificati: «Nonostante che sin dal 1981 sia stata avviata un’intensa attività di recupero di tutti gli archivi che per legge avrebbero dovuto confluire nell’Archivio di Stato di Matera, la consistenza del materiale archivistico infatti è pressoché triplicata, quel processo è ben lungi dall’essere completato. Mancano all’appello, per far solo un esempio, la gran parte degli archivi degli enti soppressi ai sensi del d.p.r. 616/1977 [che in base alla legge archivistica dovrebbero trovar posto presso gli Archivi di Stato competenti per territorio]. Analoga situazione si registra riguardo agli archivi prodotti dagli organi periferici dello Stato interessati più di altri, nell’ultimo decennio, a riorganizzazione e scorpori (…). Esemplare è il caso del Tribunale di Matera che non effettua versamenti e scarti da circa vent’anni (…). Tuttora da definire è la situazione degli Atti di stato civile la cui documentazione si trova in una sorta di limbo derivante da un precario sistema di relazioni tra magistrati e prefetti».4

 

Ma nuovi edifici non bastano

Potenziare gli Archivi di Stato attraverso interventi diretti ad incrementare le risorse, costruire nuovi appositi edifici (come stanno facendo in Francia dove è in fase di costruzione il nuovo centro per gli Archives Nationales a Pierrefitte-sur-Seine con un progetto dell’architetto italiano Massimiliano Fuksas),5 favorire l’immissione di nuovo personale costituiscono quindi condizioni assolutamente necessarie «prima che il declino strutturale di archivi e biblioteche diventi inarrestabile, compromettendo lo sviluppo degli studi storici nel nostro paese, sospingendolo ai margini del panorama internazionale e vanificando ogni conclamato proposito di potenziamento e di valorizzazione della ricerca scientifica all’interno del sistema universitario nazionale», come denunciato recentemente dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCO) in un accorato appello rivolto al governo italiano.6 Ma non basta. Quello che va ripensato è lo stesso modello istituzionale della conservazione archivistica italiana. Nato all’indomani dell’Unità d’Italia (la prima legge organica è del 1875), esso si basa su un’architettura che rispecchiava il centralismo dello Stato unitario, la scarsa articolazione della società civile e politica, la necessità di un controllo politico sulla documentazione di origine statale (la dipendenza dal ministero dell’Interno durata fino al 1975), il prevalente interesse verso la documentazione politica (espressa anche dalla storiografia dell’epoca), il formalismo giuridico della tradizione archivistica italiana per cui gli archivi prodotti dagli organi statali sono da conservare negli Archivi di Stato competenti per territorio mentre quelli prodotti da altri enti di natura giuridica diversa (pubblici e privati) hanno una differente destinazione. Per ragioni complesse di natura istituzionale e culturale, questa impalcatura non regge più. I confini tra statale, pubblico e privato sono in veloce e continua ridefinizione (spesso con ritorni indietro, come dimostrano gli interventi nel settore privato bancario e assicurativo messi in atto da numerosi governi per fronteggiare la crisi economica); le risorse da impiegare sono ingenti sia per la gestione degli archivi storici cartacei sia per quelli digitali; le problematiche sono comuni. Come è stato già scritto a proposito delle potenzialità offerte dalla creazione di archivi regionali storici, bisognerebbe sforzarsi, anche procedendo per sperimentazioni progressive, di progettare interventi che, chiamando a raccolta i diversi attori protagonisti della produzione e della conservazione archivistica, riconfigurino la «maglia degli archivi presenti sul territorio» promuovendo «la convergenza di istituzioni archivistiche oggi separate, compresi gli stessi Archivi di Stato, in grandi archivi delle città e favorire la costituzione di ampie reti territoriali di archivi che, rompendo le tradizionali barriere istituzionali, avviino una gestione il più possibile unitaria del patrimonio archivistico non solo regionale ma anche statale, di quello delle comunità locali, delle province, nonché di istituzioni di ricerca pubbliche e private, attraverso la condizione di strutture, di servizi e di personale, nonché, possibilmente, delle politiche di valorizzazione».7

Conservare il digitale

Sinergie istituzionali, superamento di barriere culturali tra settori diversi dei beni culturali, forme nuove di gestione e conservazione sono anche i prerequisiti necessari per affrontare l’altra grande sfida rappresentata dallo sviluppo delle ICT. Tecnologie per la comunicazione e per la diffusione della conoscenza, possibilità di accesso a distanza, costruzione di archivi virtuali, integrazioni tra archivi e tra oggetti documentari diversi, incremento delle possibilità della valorizzazione dei contenuti, digitalizzazione di documenti per fini conservativi o di diffusione: sono tutte strade che anche gli archivi italiani stanno percorrendo, pur se con un certo ritardo rispetto ad altri paesi. Si tratta sicuramente di grandi potenzialità non solo per la diffusione ma anche per un nuovo modo di fare cultura: ciò che cambia, infatti, non sono solo i supporti, ma le aspettative e i bisogni degli utenti sempre presenti con interventi attivi e partecipativi nella costruzione dei contenuti in rete, gli attori, i linguaggi, gli obiettivi raggiungibili. Sarebbe, però, troppo ingenuo pensare che i soli processi di digitalizzazione servano a eliminare problemi e ostacoli. Si pensi, ad esempio, alle fallaci illusioni fatte circolare in campo archivistico circa il fatto che con la digitalizzazione massiccia negli uffici pubblici sparirebbe la carta, tutti lavorerebbero meglio, si risparmierebbero consistenti risorse, i servizi migliorerebbero. La realtà italiana, e non solo, dimostra che non basta investire in tecnologie, fare entrare i computer nei nostri uffici, emanare circolari o scrivere codici. Per raggiungere tali giusti e auspicabili obiettivi, in realtà, servono molte altre condizioni e strumenti. Non avrebbe senso, per esempio, digitalizzare quei depositi pieni di documenti archivistici, citati precedentemente, per risolvere il problema della conservazione di quelle carte. E questo perché i processi di digitalizzazione sono complicati e hanno costi molto elevati e quindi vanno applicati solo a determinata documentazione selezionata in base a criteri da concordare tra gli enti e l’amministrazione archivistica. Inoltre, come imporre e, soprattutto, come sostenere processi qualificati di informatizzazione – intesi sia come passaggio dal cartaceo al digitale, sia come incremento dell’uso del documento digital born – se non sono stabilite, sia dal punto di vista organizzativo che da quello teorico, le condizioni che permettano una conservazione a lungo termine di documenti autentici e affidabili?

 

Oltre le tecnologie

Se è importante sviluppare strategie intese a favorire lo sviluppo di progetti rivolti ad incrementare l’uso delle ICT nel campo culturale o in quello dell’e-government, in sintonia con le politiche europee di questi ultimi anni, è necessario anche chiedersi cosa fare in termini di politiche complessive per accompagnare e supportare tale trasformazione. Per esempio, è ormai acquisito dalla comunità scientifica che la condizione necessaria per garantire la conservazione a lungo termine delle memorie digitali archivistiche sia quella di intervenire in maniera molto precoce sin dalla fase di formazione del documento predisponendo requisiti tecnologici e archivistici nella fase della progettazione stessa dei sistemi documentari avanzati. Questo significa che i produttori di archivio (gli enti, le imprese, gli uffici ecc.) devono lavorare in maniera molto più stretta con i conservatori di archivio (Archivi di Stato, Sovrintendenze archivistiche ma anche le sezioni degli archivi storici nel caso di enti pubblici o privati) creando strutture, normative e personale specificamente formato che tengano conto della necessità di affrontare il problema a livello sistemico, intervenendo in maniera coordinata e condivisa in tutte le fasi e in ogni aspetto della gestione della documentazione. È sulla base di questa convinzione che in Gran Bretagna, nell’ottobre del 2006, l’Office of Public Sector Information (OPSI) – l’ufficio che si occupa di «information policy, setting standards, delivering access and encouraging the re-use of public sector information» e che fornisce «a wide range of services to the public, information industry, government and the wider public sector relating to finding, using, sharing and trading information »8 – è stato fuso con i National Archives «to provide strong and coherent leadership for the development of information policy across government and the wider public sector ».9 Questo consente che le politiche relative alla documentazione pubblica digitale vengano elaborate tenendo conto non solo degli obiettivi di efficienza e di economicità, ma anche di esigenze più generali come quella di garantire l’accesso futuro a documenti autentici che a ben guardare, in realtà, costituisce non solo la condizione essenziale per salvaguardare la memoria del presente come patrimonio culturale per le prossime generazioni, ma anche il presupposto per lo svolgimento affidabile delle attività delle pubbliche amministrazioni in relazione ai bisogni di certezze amministrative da parte dei cittadini e degli enti stessi. È come se in Italia il CNIPA (Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione), operante presso il ministero per le Riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, si fondesse con l’Archivio centrale dello Stato.10

Le sinergie istituzionali – che possono dar luogo o a nuove strutture o a forme autorevoli e stabili di coordinamento – sono essenziali quindi per affrontare il complesso tema della “sopravvivenza” del digitale. Un ulteriore esempio in questo campo sono i depositi certificati, luoghi e strutture appositamente create per la conservazione di oggetti digitali non solo archivistici, su cui le comunità internazionali dei professionisti del documento e dell’informazione stanno molto lavorando in questi ultimi anni per individuare politiche e linee guida per la gestione e la sicurezza. Ciò che interessa sottolineare è che nella creazione di questi depositi sono coinvolti non solo produttori dei dati, conservatori e utenti, ma anche discipline e professionisti diversi nella convinzione che la “convergenza” al digitale, pur non annullando completamente le differenze teoriche e metodologiche degli interventi e la specifica natura dei diversi oggetti, ha spinto a riflessioni comuni, a forme di sperimentazione inedite, all’ascolto reciproco e allo scambio di esperienze. Basti pensare che uno dei principali modelli di riferimento in questo contesto è lo standard Open Archive Information System (OAIS), elaborato dalla NASA per l’archiviazione dei dati spaziali e poi diventato uno standard internazionale (ISO 14721:2003) finalizzato a definire un’infrastruttura logica generale per l’archiviazione di oggetti digitali di qualunque natura e, in particolare, per le biblioteche e gli archivi.

Che si voglia chiamare emergenza o sfida, la situazione del settore archivistico italiano oggi ha bisogno, oltre a fondi finanziari e personale, di idee, di riflessioni sui luoghi della conservazione archivistica, sui tempi e sulle procedure, sulle responsabilità degli attori di questi processi, sulle forme di cooperazione necessarie, sulle professioni e sui processi di formazione.

 

I processi formativi

In questo quadro, l’aspetto della formazione del personale riveste un ruolo cruciale sia perché consente di creare in tempi rapidi nuove generazioni di tecnici, sia perché favorisce la crescita culturale necessaria a una riprogettazione della funzione archivistica dopo un decennio di defatiganti e non sempre felici trasformazioni organizzative e normative. In questo ambito, la sfida più impegnativa riguarda il tipo di formazione che un archivista oggi deve ricevere per affrontare con sufficiente competenza tecnica e flessibilità organizzativa i problemi di creazione, gestione e conservazione della memoria documentaria. Le nostre comunità devono essere in grado di affrontare con rigore scientifico non solo – come si è soprattutto fatto finora – i problemi della descrizione e dell’accesso, delle tecniche e dei metodi di conservazione, ma anche – e sempre di più – i processi stessi della formazione dei documenti, della loro comunicazione interna e ai cittadini e, in generale, anche la dimensione organizzativa e politico-culturale dell’esercizio della funzione documentaria. Come già si è sottolineato precedentemente, il processo di conservazione e custodia di tale memoria è infatti ormai un processo precoce che sarà in molti casi possibile solo se potrà e saprà intervenire all’inizio della catena, vale a dire al momento della formazione del documento e dell’archivio.

Le risposte formative dovrebbero essere all’altezza delle sfide che oggi il settore ha davanti e che qui si sono solo brevemente accennate. Qualsiasi scorciatoia – come quelle che in questi ultimi anni hanno affollato l’offerta formativa – contribuisce al ridimensionamento della professione e di conseguenza alla ulteriore emarginazione del patrimonio tutelato. Al contrario, le innovazioni in atto implicano da un lato un forte e continuo collegamento con processi di ricerca scientifica multidisciplinare, dall’altro la pratica quotidiana, la sperimentazione, la verifica e la valutazione delle riflessioni elaborate e delle soluzioni proposte. È impensabile che un processo formativo che deve far fronte a bisogni conservativi così complessi e articolati sia affidato a esclusive analisi e riflessioni teoriche, ma è altrettanto rischioso che la direzione di un simile percorso non sia sostenuto largamente da impegnativi e continuativi progetti di ricerca, possibilmente allargati a una dimensione internazionale. Appare evidente, quindi, la necessità di una forte e autorevole formazione universitaria collegata tuttavia ai processi reali del lavoro archivistico in tutte le sue componenti. Senza una ricca offerta formativa universitaria e il successo di programmi di istruzione accademica di medio e alto livello (lauree triennali, specialistiche, master e dottorati) i nodi ora indicati non potranno mai trovare una risposta adeguata. La preparazione degli archivisti del XXI secolo ha bisogno prioritariamente di una scuola accademica alta, quindi di un impegno dei nostri ricercatori nei progetti internazionali, europei e nazionali, sia di natura teorica sia nella realizzazione applicativa.

Il modello formativo nazionale presenta allo stato attuale molti fattori di rischio, molte criticità e alcune importanti potenzialità (non diversamente da altre funzioni). Ad accrescere la complessità e le contraddizioni di questa fase, peraltro caratterizzata da una notevole ricchezza di proposte e da un vivace dibattito, ha senza dubbio contribuito la molteplicità degli attori stessi dei processi formativi, a cominciare dalla presenza sempre più consistente delle iniziative di formazione universitaria.

Le insufficienze evidenti degli attuali percorsi formativi (tanto nelle Scuole degli Archivi di Stato quanto nelle sedi universitarie e, ancor più, nelle proposte di formazione professionale presenti nei diversi ambiti regionali) potranno trovare soluzione positiva solo con uno sforzo significativo di innovazione sia nei contenuti che nelle forme e modalità di erogazione e di integrazione reciproca. Le specifiche criticità e debolezze di cui siamo tutti in sostanza consapevoli non possono ridursi a qualche correttivo, né potranno essere risolte isolatamente. Abbiamo soprattutto bisogno di un tavolo di concertazione politica e istituzionale che riunisca l’amministrazione archivistica, il mondo universitario e i diversi attori istituzionali che operano nel campo della formazione.

La strada impervia della collaborazione interistituzionale (tra atenei, tra facoltà, tra centri di formazione, tra comunità professionali e di pratiche) è l’unica ipotesi convincente, sia pure impegnativa, anche perché la ricerca scientifica che deve accompagnare e garantire un’adeguata formazione universitaria è costosa e le risorse nel nostro paese sono sempre più limitate. La collaborazione potrà dare i suoi frutti solo se tutti gli attori del processo formativo sapranno riconoscere con correttezza l’impossibilità di perseguire soluzioni autoreferenziali e isolate (povere di risultati e di prospettive) e sapranno individuare con realismo le numerose questioni aperte che progetti di qualità devono affrontare soprattutto nella realizzazione di programmi di formazione, sostenibili ed efficacemente interdisciplinari. Essi si dovranno basare sulla sperimentazione e dovranno essere in grado di formare figure professionali capaci di operare nel prossimo futuro in ambienti sempre più incerti e meno riconosciuti, poco attenti ai risvolti culturali della conservazione e gestione della memoria documentaria, ma molto sensibili ai bisogni del riuso e del recupero efficienti ed efficaci delle informazioni documentarie per i propri bisogni correnti in un quadro tecnologico e organizzativo in continua evoluzione.


[1] S. Vitali, Abbondanza o scarsità? Le fonti per la storia contemporanea e la loro selezione, in C. Pavone (a cura di), Storia d’Italia nel ventesimo secolo. Strumenti e fonti, Ministero per i beni e le attività culturali, vol. 1, Roma 2006, p. 22.

[2] G. Melis, L’amministrazione, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Donzelli, Roma 1995, pp. 246-47.

[3] www.archives.gov/about/

[4] A. Manupelli, Cantieri di lavoro: il recupero degli archivi degli apparati della pubblica amministrazione soppressi, riformati e contro riformati, in D. Porcaro Massafra, M. Messina, G. Tatò (a cura di), Riforme in corsa… Archivi pubblici e archivi d’impresa tra trasformazioni, privatizzazioni e fusioni, EdiPuglia, Bari 2006, pp. 127-28.

[5] «Cette décision consacre l’engagement de l’État en faveur d’un patrimoine exceptionnel. Les Archives nationales, mémoire de la France contemporaine issue de la Révolution, auraient pu être mises en péril par l’exiguïté, la saturation et l’inadaptation des locaux jusqu’alors destinés à leur préservation». www.archivesnationales.culture.gouv.fr/chan/index.html

[6] Per l’appello del 6 febbraio 2009 si veda www.sissco.it/fileadmin/user_upload/Attivita/comunicati/Sissco_archiviebiblioteche.pdf

[7] S. Vitali, Gli archivi delle Regioni: un contributo alla discussione, in “Le carte e la storia”, 2/2006, p. 9.

[8] www.opsi.gov.uk/about/index.htm

[9] Ibidem.

[10] È in attesa della firma degli altri ministri competenti il regolamento che trasforma il CNIPA in Digit@PA, ente pubblico a carattere tecnico-scientifico con una struttura di consulenza, vigilanza e coordinamento, sotto le direttive del ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione. Le funzioni del precedente Centro saranno ereditate dal ministero e in parte dal nuovo ente.