Partito pesante o partito leggero?

Written by Alessandro Campi Friday, 08 May 2009 18:00 Print

Quella tra partito strutturato e partito leggero è un’alternativa che rischia di non farci comprendere le difficoltà reali nelle quali, da oltre un quindicennio, si trova la politica italiana. Il vero problema della Seconda Repubblica non è dato tanto dalla scelta tra il vecchio partito-chiesa e il partito “fluido”, quanto dall’eccesso di frammentazione partitica, dalla quale derivano instabilità e ingovernabilità. La nascita del PD e del PDL, passaggio dalla logica delle coalizioni a due grandi partiti a vocazione maggioritaria, rappresenta il tentativo di aprire una nuova fase politica.

Il tema di quale forma dare al Popolo della Libertà è stato al centro del dibattito, in verità né troppo acceso né troppo approfondito, che ha accompagnato la nascita di questa nuova formazione, avvenuta nel corso del Congresso svoltosi a Roma dal 27 al 29 marzo scorso. La discussione – politica e scientifica – si è concentrata in particolare sulle differenze, sulle relative virtù o debolezze delle due possibili modalità di organizzazione di un partito in età contemporanea: quella tradizionale, pesante, ricalcata sull’esempio dei movimenti politici di massa che hanno segnato la storia del secolo scorso, e quella innovativa, leggera, coerente con il carattere “liquido” e destrutturato, non più condizionato dalle grandi narrazioni ideologiche novecentesche e dalla presenza di blocchi sociali omogenei, che la politica avrebbe assunto negli ultimi due decenni.

Ci si è chiesti a quale modello il PDL si sarebbe dovuto ispirare tenuto conto della duplice e assai diversa eredità che esso si accingeva a raccogliere al suo interno. Da un lato, quella di Alleanza Nazionale, un tipico partito strutturato e ben radicato a livello territoriale, con un apparato consolidato di funzionari, militanti e iscritti, dotato di meccanismi di selezione dei gruppi dirigenti affidati, soprattutto a livello locale, alla competizione tra correnti e boss, ed espressione, seppure in forme nel frattempo mutate, di una antica tradizione ideologica. Dall’altro, quella di Forza Italia, un tipico partito “fluido”, nato come macchina di mobilitazione elettorale e aggregazione di entità eterogenee tenute insieme dalla forza (carismatica ed economica) del suo fondatore-padrone; una formazione che per queste ragioni è sempre stata priva, secondo le interpretazioni più diffuse, di una cultura politica omogenea e coerente, di strumenti di partecipazione dal basso e di una autentica vita democratica interna.

Come già nel caso del Partito Democratico, anche in quello del nuovo partito di Berlusconi ci si è chiesti se, tenuto conto dei caratteri nuovi assunti dagli odierni regimi democratici e dei cambiamenti intervenuti in anni recenti nel sistema sociale, nelle culture politiche e nell’orientamento dell’opinione pubblica, dovesse prevalere una forma aggiornata e più funzionale del vecchio modello del partito di integrazione, capace di penetrare nella società con le sue strutture organizzative e di incanalarne le istanze e i bisogni all’interno delle istituzioni di governo sulla base di un programma d’azione politica coerente e unitario. Se fosse preferibile invece orientarsi verso un modello di raccolta del consenso più personalistico e pragmatico, nel quale a contare sono gli elettori e non i militanti o gli apparati, le capacità decisionali e la forza di comunicazione del leader e non le procedure fissate in astratto dagli statuti, la rigidità dei programmi elettorali, il professionismo politico e le mediazioni estenuanti che rischiano spesso di paralizzare l’azione politica. O, ancora, se – come da molti auspicato – si dovesse trovare un punto di equilibrio fra il necessario grado di istituzionalizzazione che comporta ogni organizzazione formale e le esigenze di flessibilità operativa e di immediatezza, nel linguaggio e nei contenuti, che sono oggi imposte alla politica dall’evoluzione tecnologica e dalle radicali trasformazioni che hanno investito il tessuto sociale e l’immaginario pubblico.

In realtà, l’alternativa tra partito strutturato e partito fluido, così come è stata presentata negli ultimi anni nella discussione sui cambiamenti intervenuti nella politica italiana dopo il crollo del sistema dei partiti della Prima Repubblica – vale a dire come il risultato di un inevitabile passaggio dalla modernità vischiosa alla postmodernità liquida, dall’epoca della politica “assoluta”, basata sulle masse e sui grandi ideali collettivi, a quella della politica “minima”, basata sull’esaltazione dell’individualismo, sull’immagine e sull’azione solitaria e risolutiva del leader – rischia di essere falsa e fuorviante. Se è vero, infatti, che i partiti odierni, crollata la partecipazione dei cittadini e la fiducia di questi ultimi nella classe politica, venute meno le grandi ideologie intorno alle quali i singoli strutturavano le loro relazioni sociali e costruivano la loro identità individuale e collettiva, non possono più essere immaginati come dei giganti burocratici o delle comunità totalizzanti, è pur vero che l’esistenza di una qualunque formazione politica non può essere ridotta alla mobilitazione in vista delle scadenze elettorali, ad un rapporto esclusivamente fiduciario e personale tra il semplice elettore e il leader di turno e alla gestione scientifica dei sondaggi d’opinione affidata agli esperti di marketing. I partiti, oggi, non possono più chiedere ai loro militanti e simpatizzanti il sacrificio dell’intelletto e della libertà personale, non possono più proporsi come agenzie morali e come canali esclusivi di partecipazione, di socializzazione e di promozione sociale. Ma ciò non significa che debbano essere concepiti come strumenti di dominio a beneficio esclusivo del singolo o dell’oligarchia che li controlla, come assemblaggi occasionali di interessi parziali privi di qualunque bussola valoriale e come centrali di propaganda il cui unico obiettivo è rastrellare consenso in vista della temporanea conquista del potere. Il partito strutturato somigliava ad una caserma o, nella migliore delle ipotesi, ad un convento: viveva perciò di gerarchie interne molto rigide, sollecitava passioni profonde e un’autentica dedizione, proponeva un’idea globale di società, produceva identità vincolanti e aveva confini ideologici molto netti. Ma ciò non vuol dire che il partito leggero, che dovrebbe inevitabilmente prenderne il posto, debba assomigliare ad una nave corsara (guidata da un avventuriero e nelle mani di una ciurma indisciplinata interessata soltanto a fare bottino a scapito del prossimo) o, per usare una diversa metafora, ad una associazione temporanea d’impresa (nella quale ci si ritrova insieme giusto il tempo necessario a conseguire, con l’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione, un qualche obiettivo comune). Il fatto che un tempo i partiti organizzati assolvessero ogni tipo di funzione – dalla rappresentanza degli interessi sociali alla socializzazione delle masse entro le istituzioni dello Stato, dal controllo delle risorse e delle cariche pubbliche alla distribuzione di incarichi e benefici ai propri clientes, dalla definizione delle politiche pubbliche alla creazione di un sentimento di appartenenza collettiva – non significa che oggi essi, divenuti nel frattempo a seconda dei punti di vista “leggeri” o “deboli”, non debbano più svolgerne nessuna, dal momento che ogni responsabilità o scelta politica è destinata a gravare, nel contesto odierno, sulle spalle di singoli uomini o di ristretti gruppi di potere che con i partiti hanno ormai un rapporto meramente strumentale o, nella migliore delle ipotesi, retorico.

A ben vedere, il partito fluido di cui oggi si parla tanto non può che essere, a sua volta, un partito minimamente strutturato e organizzato: con una sua base sociale di riferimento, con un apparato centrale e periferico di funzionari, con un contorno programmatico e una cornice ideale che lo rendano riconoscibile agli occhi degli elettori, con una struttura di iscritti e militanti in grado di sostenerne le battaglie. La “leggerezza”, così spesso invocata come antidoto alle degenerazioni prodotte dai partiti burocratico- ideologici di massa di un tempo, non può essere sinonimo di precarietà e di contingenza: un partito snello non è un partito evanescente o provvisorio, che fa la sua comparsa sulla scena solo in occasione delle campagne elettorali. Tanto meno può essere considerato alla stregua di un marchio commerciale la cui diffusione presso il “pubblico” possa essere affidata unicamente agli strumenti della più raffinata comunicazione pubblicitaria. Privo magari di un cemento ideologico unitario, un tale partito deve pur sempre esprimere una visione politica generale e avere delle parole d’ordine qualificanti e riconoscibili: il rifiuto delle ideologie, intese come forme di conoscenza totalizzanti che la storia ha reso obsolete, è cosa diversa dal rigetto delle idee, dalla mancanza di una qualunque tensione ideale o peggio dalla confusione delle lingue. Quanto al ruolo svolto dal leader, su cui oggi tanto si insiste quando si parla di partiti, è sicuramente decisivo nell’era della politica-spettacolo: ma il leader, per quanto dotato di magnetismo e di qualità, può svolgere una fondamentale funzione aggregante e di rappresentazione politico-simbolica, ma non può esaurire nella sua sola persona le competenze di un organismo complesso e articolato quale è appunto un partito con milioni di seguaci ed elettori.

Se l’alternativa al partito-apparato o partitocomunità giunto sino a noi dal passato non è il partito prêt-à-porter tutto incentrato sul carisma individuale e sulla riduzione della lotta politica a banali slogan pubblicitari o a generici messaggi edificanti, sulla dissoluzione delle antiche formule organizzative e di partecipazione a beneficio di forme di coinvolgimento collettivo meramente virtuali e rituali (dalle finte primarie agli assembramenti di popolo intorno ai gazebo) o peggio passive; se insomma la cosiddetta postmodernità non ha del tutto svuotato di senso la politica democratica, all’interno della quale i partiti organizzati di massa continuano a rivestire un ruolo centrale e decisivo a dispetto di tutte le analisi che hanno invece scommesso sulla loro crescente perdita di ruolo; se ciò è vero, bisogna allora spingersi oltre la troppo scontata distinzione tra partito strutturato e partito leggero dalla quale abbiamo preso le mosse. Non con l’obiettivo di proporne una diversa e altrettanto approssimativa, ma con l’idea di individuare il problema di fondo dell’attuale sistema politico italiano. Che è quello, a nostro giudizio, di lasciarsi alle spalle l’abnorme proliferazione di formazioni politiche prodottasi a partire dal 1994 – sigle e simboli spesso frutto di avventure personalistiche, privi in molti casi di un radicamento sociale effettivo e di una cultura politica minimamente elaborata – in direzione di un assetto partitico- istituzionale più stabile e funzionale, il cui fondamento essenziale dovrebbe essere assicurato dall’azione di due grandi partiti a vocazione popolare e nazionale.

Contrariamente alle attese (e alle speranze), la cosiddetta Seconda Repubblica è stata a lungo caratterizzata da un’accentuata frammentazione partitica, solo in parte mitigata, a destra come a sinistra, dalla nascita di coalizioni, aggregazioni e cartelli elettorali che però, proprio a causa della loro eccessiva eterogeneità interna, si sono spesso dimostrati impotenti e inefficaci, specie quando chiamati alla prova del governo. I gruppi e le formazioni che in questi anni hanno solcato la scena politica nazionale hanno ovviamente avuto caratteristiche diverse. Alcuni – dai DS ad Alleanza Nazionale – sono stati la prosecuzione, sul piano organizzativo e dell’insediamento elettorale, e l’aggiornamento, sul piano culturale e programmatico, di partiti con una lunga storia alle spalle e che non sempre hanno dimostrato di saper fare i conti con il loro ingombrante passato. Altri – dal caso eclatante di Forza Italia a quello non meno significativo dell’Italia dei Valori – sono stati caratterizzati sin dalla loro nascita da una forte impronta personalistica e “padronale”. Alcuni – da Rifondazione Comunista alla Destra di Storace, dai Comunisti italiani all’UDEUR di Mastella – hanno avuto un’origine esclusivamente parlamentare, sono cioè stati il frutto di scissioni e diaspore consumate nei corridoi del palazzo prima che nella società. Altri – ad esempio la Margherita – sono nati dall’incontro e dall’accordo tra oligarchie e gruppi dirigenti di precedenti formazioni. Alcuni – dall’UDC di Casini ai Socialisti italiani di Boselli – si sono dati come obiettivo quello di tenere artificialmente in vita le culture politiche sconfitte e “perseguitate” della Prima Repubblica. Altri infine – la Lega di Bossi – hanno dato voce a fratture e interessi che nella storia dell’Italia repubblicana non avevano avuto alcun particolare rilievo politico. Tutto ciò, ovviamente, senza considerare la miriade di ulteriori gruppi e formazioni – alcuni nel frattempo scomparsi, altri nati morti e risorti, altri ancora di conio recentissimo – che in tutti questi decenni hanno comunque svolto un qualche ruolo nella competizione politica, contribuendo a renderla ancor più schizofrenica.

Per quanto diversi nella genesi e negli obiettivi perseguiti, per quanto differenti sul piano programmatico e organizzativo, tutti questi partiti, e alcuni di essi in particolare, hanno avuto un elemento in comune: la tendenza a muoversi sulla scena in modo opportunistico ed estremamente pragmatico, sulla base di vincoli di alleanza e di collaborazione spesso assai labili e precari, facendo valere il loro interesse immediato a scapito delle finalità politiche generali dichiarate nei programmi, avendo dunque l’obiettivo di massimizzare le loro quote di consenso e la loro capacità di condizionamento in una logica di mera sopravvivenza. Il che ha ovviamente contributo ad accrescere l’instabilità del sistema politico e a rendere la cosiddetta democrazia dell’alternanza un avvicendarsi al potere meccanico e privo di costrutto politico.

In questo quadro, la nascita, pressoché contestuale, del PD e del PDL deve essere vista come il tentativo di porre un argine ad una situazione di crescente ingovernabilità, attraverso la costituzione di due grandi partiti di massa – inclusivi e plurali, come suole dirsi – che se da un lato sono effettivamente riusciti a frenare la corsa alla frammentazione intercettando alle ultime elezioni politiche il consenso di una vasta maggioranza di italiani, dall’altro si sono trovati ad affrontare il problema di dare un’anima progettuale, un’identità e un profilo politico-culturale coerente a quelli che altrimenti rischiano di essere – a dispetto ancora una volta delle attese e delle speranze – dei semplici contenitori, dei partiti- patchwork, capaci di inglobare al loro interno tutto e il suo contrario, ma proprio per questo pronti ad implodere alla minima difficoltà: si tratti di una momentanea sconfitta elettorale o dell’appannamento delle capacità di conduzione del leader.

Ciò significa che il problema di questi partiti – a vocazione cosiddetta maggioritaria – non è tanto organizzativo o di forma, dal momento che, per quanto agili e snelli vogliano essere, dovranno pur sempre darsi una struttura minimamente solida, dunque un apparato di funzionari in grado di farli operare sul territorio, delle strutture parallele di sostegno, un’ampia base di militanti e volontari e dei canali di partecipazione quanto più possibile efficaci (magari attraverso il ricorso a strumenti di mobilitazione innovativi). Il problema vero con il quale debbono fare i conti è quello di costruire, a partire dalle diverse anime e sensibilità che li compongono, una cornice valoriale e una identità politico-culturale per quanto possibile unitaria e condivisa, ma che sia al tempo stesso innovativa e coerente con gli obiettivi politici, a loro volta innovativi, che essi intendono perseguire. Il problema, in altre parole, è quello di trovare al proprio interno, in funzione delle diverse contingenze storiche e politiche, una sintesi ideale, una convergenza di programmi e di obiettivi, delle quali il leader di turno non può che essere il garante e l’espressione. La logica delle coalizioni o dei cartelli elettorali che hanno segnato la storia italiana degli ultimi quindici anni era quella di far convivere in modo più o meno pacifico, in funzione di un obiettivo minimo condiviso rappresentato dalla vittoria elettorale e dunque dalla conquista del potere, culture e tradizioni politiche che erano in molti casi tra di loro irriducibili. Il collante di quelle aggregazioni era la lotta comune contro il nemico politico, comunque motivata sul piano ideale e personale. Ma si è visto che si trattava di un vicolo cieco. Per non riprodurre quegli errori, i partiti di cui stiamo parlando dovranno perciò costruire la loro identità in positivo: non contro qualcuno, ma a favore di qualcosa, non contro una parte, ma a beneficio potenziale di tutti. Dovranno cioè elaborare idee, visioni e proposte originali, mettendo in corto circuito virtuoso le loro diverse componenti culturali interne, invece di accontentarsi, come in passato, della loro semplice sommatoria algebrica o del loro reciproco annullarsi.

A ben vedere, la debolezza dei partiti italiani in questo quindicennio di storia non ha riguardato tanto la loro struttura organizzativa: la loro capacità di operare in modo efficace all’interno delle istituzioni o del corpo sociale, di orientare il consenso dei cittadini e gestire (spesso a beneficio proprio e dei rispettivi seguaci) le risorse pubbliche. Su questi diversi terreni, al contrario, i partiti hanno dimostrato di essere tutt’altro che in crisi. La loro debolezza è dipesa piuttosto dal ritardo – culturale prima che politico – con il quale hanno spesso risposto alle nuove sfide che si sono trovati dinnanzi, dalla loro lentezza nell’analizzare e nel comprendere i nuovi scenari aperti dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica, dalla loro difficoltà ad elaborare programmi e ad effettuare scelte davvero innovative, dalla loro inclinazione ad affrontare i problemi ora in modo pregiudizialmente ideologico, nella presunzione di poter perpetuare schemi mentali e chiavi di lettura del mondo reale ereditati dal passato, ora con modalità eccessivamente pragmatiche, nella convinzione che la politica odierna possa essere ridotta a pura gestione tecnico-amministrativa. Insomma, PDL e PD avranno un futuro – e con essi il sistema politico italiano – non se sceglieranno la giusta formula organizzativa, che non può essere che quella consona ad un partito di massa, per quanto postmoderno lo si voglia considerare, ma se sapranno dotarsi di una nuova cultura politica, se si lasceranno alle spalle il passato da cui provengono per aprirsi al cambiamento e all’innovazione innanzitutto sul piano delle idee, se sapranno azzardare quelle nuove sintesi che il futuro impone, se produrranno al loro interno un amalgama finalmente virtuoso e originale di esperienze, biografie, storie e tradizioni.