Ha ancora senso la parola partito?

Written by Dario Franceschini Friday, 08 May 2009 17:52 Print

Tra le forze politiche presenti nel Parlamento italiano solo una conserva la parola partito nel suo nome: il PD. Eppure, la Costituzione parla esplicitamente di partiti. Nel campo delle culture riformiste la riflessione sul tema del "partito nuovo" è stata inevitabilmente condizionata dalla cornice politica e istituzionale del nostro paese. Anche la forma di questo nuovo strumento-partito rappresenta qualcosa di più di una formula organizzativa, ma deve riuscire a incarnare una visione della democrazia intesa come qualcosa di vivo e di adatto alla modernità.

Ha ancora senso usare la parola partito? Se consideriamo le forze politiche presenti oggi nel nostro parlamento, solo il Partito Democratico ha scelto di ricorrere ad una denominazione che prevedesse esplicitamente la parola partito nel suo nome. A destra le formazioni che originariamente compongono la coalizione hanno tutte rinunciato al termine tradizionale: Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega Nord. Anche la nuova formazione, che nasce dalla fusione dei primi due soggetti, fa a meno della definizione tradizionale e la sostituisce, significativamente, con il concetto di popolo. Al centro c’è l’Unione di Centro di Casini; e, ancora, l’Italia dei Valori e il Movimento per le Autonomie. Nel Parlamento italiano, dunque, c’è un solo partito: il PD.

Eppure, la Costituzione, parlando dell’organizzazione classica della democrazia e del modo di organizzare la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, parla esplicitamente di partito. L’articolo 49 recita infatti: «Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Perché, allora, questa evoluzione che rappresenta qualcosa di più profondo e rilevante che non solo una scelta lessicale? E tale trasformazione significa implicitamente che l’organizzazione del fare politica, il libero associarsi dei cittadini, ma anche il metodo e gli obiettivi di quelle aggregazioni possono prescindere dal dettato costituzionale per il semplice fatto che siamo di fronte a realtà molto diverse – a cominciare, appunto, dal nome – da quelle prese in considerazione dalla nostra Carta?

Certo, l’organizzazione della politica nella forma partito non è qualcosa di statico. Segue la dinamica sociale. È un sistema complesso, nel quale reagiscono diversi fattori: il modello istituzionale, vale a dire la forma di Stato e la forma di governo, e i sistemi elettorali; ma anche l’articolazione dei diversi poteri e il grado di autonomia e di pluralismo che caratterizzano una determinata società. Così, storicamente, le organizzazioni politiche che chiamiamo partiti hanno presentato, in relazione al diverso comporsi di quella dinamica sociale e istituzionale, profili e caratteri molto diversi.

Nel caso italiano l’avvento della democrazia repubblicana segna, come sappiamo, uno spartiacque decisivo. Viene a compimento il processo iniziato all’inizio del secolo scorso con la nascita dei grandi partiti popolari di massa, che già prima del ventennio fascista avevano sfidato l’egemonia al tramonto delle vecchie élite liberali e borghesi. Fino alla fine del XIX secolo il modello politico dominante è quello che si aggrega attorno a singole personalità e che assume la forma di comitato elettorale non permanente funzionale alla tutela di singoli interessi, o di interessi di gruppi ristretti. È il cosiddetto partito dei notabili: personalità che appartengono alla élite e il cui punto di forza sta nella posizione che occupano nella scala sociale in un sistema fortemente classista e caratterizzato da un ristretto suffragio elettorale.

L’avvento dei partiti di massa, frutto della progressiva democratizzazione della società e del conseguente allargamento della base elettorale, cambia radicalmente l’organizzazione della politica, e prima ancora i presupposti. In un tempo duramente segnato dalle ideologie si rafforzano in modo molto netto i baricentri culturali e identitari. E attorno ad essi si coagulano strutture e apparati organizzativi in grado di presidiare stabilmente i territori. Tutto questo mette in moto nuove energie. Contribuisce significativamente ad un processo positivo di integrazione sociale. Attiva fenomeni inediti di volontariato che portano alla ribalta una nuova forma di protagonismo politico: la militanza. E insieme e accanto ad essa, una professionalizzazione della politica indispensabile al funzionamento di macchine pesanti e complesse che non sarebbero in grado di vivere senza un impegno a tempo pieno.

Nasce così, attorno ai grandi partiti popolari, la democrazia repubblicana. Sono, i partiti, vere e proprie istituzioni portanti della nuova democrazia, dalla stagione costituente in poi. Qualcosa di più che semplici strumenti di partecipazione politica o di mera gestione del potere. I grandi partiti popolari raccolgono e sviluppano, nell’incontro con la modernità, eredità antiche. Tradizioni culturali prima che politiche. Esperienze di radicamento sociale che vedono nel partito il luogo nel quale domande e interessi trovano la possibilità di una declinazione politica, cioè diventano “materiali” utili alla costruzione della convivenza possibile. L’Assemblea costituente rappresenta il grande laboratorio in cui si sperimenta la democrazia dei partiti. E lo spirito costituente segnerà per molto tempo negli anni successivi la politica italiana. L’arco costituzionale è qualcosa di più di una riuscita immagine metaforica applicata alla politica: segna il perimetro di principi e valori sostanzialmente condivisi all’interno del quale si svolge il confronto politico. I grandi partiti sono gli attori di questo confronto, che in alcune fasi sarà anche duro e molto aspro. Ma c’è qualche cosa che delimita il campo della reciproca legittimazione, e dunque del rispetto delle regole: quel qualcosa è la Costituzione.

Senza voler necessariamente idealizzare una stagione che è alle nostre spalle, occorre riconoscere che, nel tempo segnato profondamente dalle ideologie e dalle appartenenze identitarie, la costruzione del pluralismo, che è la cifra più qualificante della nostra democrazia in quel processo che segna il rapporto tra cittadino, comunità e istituzioni, è in misura straordinariamente importante merito dei partiti di massa.

Certo, a quella stagione è seguita quella della degenerazione partitocratica. Si dovrebbe indagare a fondo su quanta parte delle cause di quella deriva sia da ricondurre alle particolari condizioni storiche di una democrazia bloccata, come è stata quella italiana, e quanto, piuttosto, questo fenomeno sia oggettivamente connesso a quel processo il cui esito conduce al cosiddetto “partito cartello”. Cioè a partiti in concorrenza per l’accesso al potere, ma anche “complici” nell’occupazione dello spazio e delle risorse pubbliche.

Il caso italiano ha visto procedere insieme quelle dinamiche che hanno prodotto prima un sostanziale svuotamento dei partiti tradizionali e poi una loro progressiva crisi. Ma il tramonto dei partiti popolari che abbiamo conosciuto è frutto anche di ragioni più complesse, alcune delle quali non necessariamente negative. Paradossalmente, al contrario, si dovrebbe dire che il parziale esaurimento di una fase storica, che aveva visto i partiti svolgere per qualche verso anche una fase di supplenza rispetto ad alcune debolezze della società civile, coincide con il consolidamento del tessuto democratico. Una società democraticamente più matura, più aperta, più complessa, più plurale è anche una società più autonoma dal potere politico, meno condizionata, meno dipendente dal “cartello” dei partiti. Si sono aperti e moltiplicati gli spazi della partecipazione, fuori dalle organizzazione tradizionali. Si sono realizzate nuove forme di accesso alla politica e alla comunicazione, che si sono sostituite o affiancate alle reti di relazioni interpersonali.

Gli effetti di tutto questo sulla politica e le sue forme sono stati molteplici e contraddittori. Ad esempio, negli ultimi anni della cosiddetta Prima Repubblica il baricentro culturale della convivenza si è gradualmente spostato dalla dimensione pubblica a quella privata. La politica, pur restando ingombrante nella sua oppressiva rappresentazione partitocratica, è diventata via via meno importante. E poi anche meno utile e meno autorevole.

La crisi dei partiti si è tradotta in crisi di partecipazione. Sono crollati gli iscritti. Il consenso elettorale è divenuto sempre più volatile. È aumentato l’astensionismo. Ed è andata sempre più declinando la mediazione come cultura. Una crisi che ha investito non solo i partiti, ma pressoché tutte le organizzazioni fortemente istituzionalizzate, come ad esempio i sindacati.

Possiamo riconoscere nel caso italiano una trama che vede più ombre che luci? Possiamo leggere nella lunga transizione, iniziata nei primi anni Novanta, se non un approdo, almeno un orizzonte che porti fuori dalla crisi? E c’è una peculiarità italiana nella rivoluzione invisibile ma profonda che negli ultimi anni ha cambiato il mondo, sfidando anche la democrazia a cambiare?

Procediamo con ordine.

È innanzitutto cambiato il rapporto tra le persone e il potere. Parliamo spesso di fine delle ideologie, ma non ci soffermiamo abbastanza sulla circostanza che quella fine non è stata solo l’implosione di sistemi e sovrastrutture logorate dal tempo o dal fallimento economico, ma è stato il frutto di una nuova stagione segnata – pur tra mille contraddizioni – da una diffusa domanda di libertà, da una condivisa esigenza di vedere affermati nuovi diritti, dalla speranza di poter vivere in un mondo migliore di quello in cui avevano vissuto le generazioni precedenti.

Questo spirito e questa tensione hanno accompagnato il cammino verso la globalizzazione come un tempo nuovo, segnato da alcuni fattori di cambiamento epocali, che hanno modificato profondamente i modelli culturali, gli stili di vita, le concezioni antropologiche e anche il potere, non solo quello politico ma in tutte le sue diverse articolazioni.

Lo straordinario impatto sulla modernità delle tecnologie ha radicalmente ridisegnato le dimensioni del tempo e dello spazio. L’applicazione della tecnica, soprattutto nel campo della comunicazione, al modello capitalista ha scardinato il già fragile equilibrio tra il potere della politica e il mercato. Questo sconvolgimento ha investito tutte le dimensioni della nostra vita, anche quella politica.

Bisognerebbe chiedersi e indagare più a fondo su quale legame vi sia tra fine delle ideologie, crisi dei grandi partiti e crisi del sociale, con la rottura di molti legami e la lacerazione di quel tessuto connettivo che teneva insieme, non solo negli interessi, una società. E bisognerebbe domandarsi anche come mai il vuoto lasciato dalle ideologie abbia rapidamente risucchiato il potere democratico, lasciando campo libero ad altri poteri, spesso non democratici o non regolati, soprattutto nel campo dell’economia. In altri termini, la crisi progressiva delle “religioni politiche” che, con molti limiti, avevano segnato la fase nascente della vita democratica, non è riuscita, soprattutto in Italia, a dare vita ad un’etica davvero condivisa. A quella che Pietro Scoppola aveva definito “religione civile”, vissuta come patrimonio comune dai cittadini. Sta lì uno dei virus la cui lunga incubazione ha scatenato la crisi globale che ora viviamo.

La globalizzazione è o può essere democratica? È questa una domanda la cui risposta non è affatto scontata. Ci sono teorici che, come Colin Crouch, hanno parlato esplicitamente di “postdemocrazia”. La globalizzazione non solo può essere democratica, ma offre straordinarie opportunità per estendere diritti e libertà. Ma tutto ciò dipende dalla politica.

In ogni caso, si pone in termini assolutamente inediti il problema di come restituire forza alla democrazia. Di come affrontare la crisi sempre più profonda di rappresentanza. Di come garantire, nello stesso tempo, potere decisionale effettivo alla politica nella responsabilità di governo e spazi di partecipazione come presupposto imprescindibile di una politica davvero democratica.

Tornando al caso italiano, questo tema procede lungo un doppio binario. Da una parte corre il discorso delle necessarie riforme istituzionali: riforma elettorale per restituire al cittadino elettore il potere di scelta del suo rappresentante; un rapporto più efficiente tra governo e Parlamento, in un modello in cui resti inalterata ed efficace la divisione dei poteri. E poi, si dovrebbe procedere lungo una rotta già tracciata in sede di confronto parlamentare nella scorsa legislatura: quella che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, il monocameralismo, l’istituzione di un Senato federale o delle autonomie, la riforma dei regolamenti parlamentari. Dall’altra parte, una originale riflessione sul modo di organizzare la partecipazione alla vita democratica. Qui sta il futuro dei partiti. Qui stanno i partiti del futuro, che non potranno essere la replica di quelli tradizionali, il cui modello è stato messo in crisi in modo irreversibile.

Il problema del futuro della democrazia e della sua organizzazione è globale. In Italia è reso più difficile dalla drammatica transizione che abbiamo vissuto negli ultimi venti anni. Gli attori che oggi si dividono la scena politica sono completamente diversi da quelli che hanno costruito e attraversato la Prima Repubblica. La democrazia dell’alternanza e il bipolarismo sono stati approdi tardivi rispetto a molte altre democrazie occidentali. E quando si sono realizzati sono stati vissuti in modo faticoso e lacerante. Possiamo riconoscere che il bipolarismo italiano è stato costruito “contro”. Realizzando coalizioni che avevano come collante dominante il tema dell’avversario: impedire l’avvento al potere del competitore. In particolare la destra, che si è coagulata intorno alla leadership e al potere personale, economico e mediatico di Silvio Berlusconi, ha sempre cercato il suo baricentro politico e culturale nell’anticomunismo. Un anticomunismo molto diverso da quello democratico che storicamente era stato rappresentato dalla DC. La Democrazia Cristiana, infatti, aveva sempre ricondotto il tema della competizione con la sinistra nell’alveo del pieno rispetto del dettato costituzionale. Un terreno di valori, principi, regole condivise con l’opposizione e, dunque, una dialettica che aveva il suo limite nella piena e reciproca legittimazione dei competitori. Berlusconi fonda il suo avvento in politica sul presupposto esattamente contrario. L’obiettivo è la completa delegittimazione della sinistra, della cultura costituzionale, dei limiti nell’esercizio del potere. Forza Italia finisce spesso per scavalcare a destra, se così si può schematizzare, la stessa Alleanza Nazionale, proprio perché il partito di Fini, erede dell’MSI e della lunga marcia del post-fascismo nella democrazia, aveva cercato e in qualche modo trovato la sua legittimazione nella faticosa e lenta adesione ai principi costituzionali come presupposto di una piena partecipazione alla sfida per il governo. Questa contraddittoria novità rappresentata da una destra che impasta vecchie pulsioni e istintive capacità di entrare in sintonia con una modernità che esige semplificazione, velocità e autorità, spiazza la politica italiana e le conferisce una cifra originale, tale da diventare una sorta di strano modello dove si intrecciano in un gigantesco conflitto d’interessi poteri mediatici, economici e politici in un amalgama populista per molti versi inedito. Ed è in questo scenario che devono nascere i nuovi soggetti politici.

Nel campo delle culture riformiste la riflessione sul tema del “partito nuovo” è stata inevitabilmente condizionata dalla cornice politica e istituzionale del nostro paese e dalle ragioni specifiche che in Italia rendono più critico l’assetto democratico. Non a caso Pietro Scoppola, chiamato a partecipare alla redazione del primo Manifesto del PD, giudicava il Partito Democratico l’ultimo atto del processo fondativo della democrazia italiana. Una definizione che alzava in modo molto impegnativo l’asticella delle nostre ambizioni. Un partito nuovo, si è detto, capace, sviluppando e portando a compimento l’intuizione dell’Ulivo, di fare sintesi dei diversi riformismi e delle singole culture democratiche e costituzionali, ognuna delle quali riconosceva nella propria parzialità una insufficienza a trovare la risposta alla crisi.

Anche la forma di questo nuovo strumentopartito, in questo senso, rappresenta qualcosa di più di una formula organizzativa, ma deve riuscire a incarnare una visione della democrazia come qualcosa di vivo, di adatto alla modernità: una concezione della vita pubblica e della comunità che declini al futuro i valori e le idee forza delle nostre tradizioni.

Ecco, dunque, la missione: costruire un grande soggetto politico popolare e democratico. Un partito che deve essere contemporaneamente di massa, nel senso di un vero e profondo radicamento nel tessuto sociale, luogo di partecipazione, di elaborazione e anche di formazione politica. E insieme partito d’opinione, capace, in altre parole, per le sue caratteristiche di agilità e velocità nel mettere a punto la propria proposta, di incontrare la sensibilità delle persone.

Come si realizza un partito moderno che abbia queste caratteristiche? Un partito, cioè, capace di organizzare la partecipazione in forma democratica; un soggetto politico non identitario, in grado di garantire il pluralismo e il confronto interno; di selezionare democraticamente e in modo trasparente la propria classe dirigente, con la necessità di rispettare procedure, regole e anche i tempi necessari a tutto ciò, e, nello stesso tempo, un partito in grado di decidere, di avanzare proposte nel tempo reale della comunicazione moderna, di ribattere colpo su colpo, di sopportare la competizione di un avversario che imposta la sua sfida politica prescindendo da molti vincoli democratici e scegliendo di giocare tutte le sue carte sull’appello diretto al popolo?

Abbiamo cercato la risposta anche fuori dalle nostre tradizioni e dalle nostre culture politiche, storicamente diffidenti a delegare troppo potere al leader e comunque sempre naturalmente ostili alla personalizzazione della politica. Ma proprio questi anticorpi ci hanno consentito di sperimentare la strada delle primarie, guadagnando molto di più di ciò che abbiamo rischiato di compromettere. In questo senso l’investitura diretta e popolare della leadership con le primarie, come momento in cui si sceglie di dare forza a chi dovrà assumere la responsabilità di rappresentare il partito, è un elemento fondativo e caratterizzante del PD, dal quale non potremo prescindere. Ma è anche vero che se vogliamo essere nuovi nel senso che è stato appena ricordato, cioè un partito di massa e di opinione, non possiamo essere solo il partito delle primarie. Oltre la leadership (che in un partito davvero democratico deve essere sempre contendibile), che nella politica contemporanea è certamente un elemento decisivo, c’è il partito dei e nei territori. C’è la presenza fisica del partito là dove le persone vivono.

Su questo piano non è certo possibile replicare solo vecchi moduli organizzativi. Né basta una piccola riforma terminologica secondo cui le antiche e storiche sezioni assumono il nome di circolo. Occorre pensare a modelli meno rigidi, in grado di coniugare il radicamento e la militanza tradizionale – quella degli iscritti – con altre forme di partecipazione e di volontariato civile, magari più flessibili, meno strutturate in termini di appartenenza e concentrate su determinate istanze (come ad esempio quella ambientale o quelle legate all’affermazione di nuovi diritti di cittadinanza), ma ugualmente preziose ai fini di quella capacità di ascolto e rappresentanza della società che è la prima missione di un partito che voglia dare sostanza al suo essere democratico.

Se, infatti, la caratteristica patologica della democrazia è il nuovo populismo e il suo tentativo di progressiva delegittimazione di ogni forma di rappresentanza, a cominciare da quella parlamentare, è abbastanza evidente che l’obiettivo di chi lavora per rispondere alla crisi della democrazia sia muoversi esattamente in senso contrario. E cioè ridare credibilità, forza e autorevolezza alla rappresentanza democratica usando lo strumento partito come il luogo privilegiato (non l’unico) in cui le istanze dei territori, le domande e le attese delle comunità trovino ascolto. Dove le energie migliori di quel territorio abbiano la possibilità di mettersi in rete, candidandosi a diventare classe dirigente non come frutto di una cooptazione, ma come espressioni di una realtà che si riconosce in quelle persone e nella loro personale credibilità, ma anche nella concretezza che quel progetto assume dall’essere condiviso e portato avanti da una grande forza riformista, popolare e radicata. In questo senso le primarie sono uno strumento di fondamentale importanza, purché avvengano con e per il partito e non contro di esso.

Abbiamo discusso molto, e soprattutto abbiamo lasciato che attorno a noi, e qualche volta contro di noi, si discutesse di partito liquido o partito solido. Di partito leggero o partito pesante. Di partito degli iscritti o delle primarie. Di partito strutturato o cartello elettorale. Ancora, di partito di stampo europeo o di partito americano.

Il partito nuovo deve semplicemente mettere a punto il suo modello organizzativo traendo il meglio dalle esperienze precedenti, contaminandosi con altre forme di impegno politico e sociale, con la chiarezza che nasce dall’obiettivo che ci ha visto nascere: dare futuro alla democrazia. Per raggiungere questo obiettivo occorre mobilitare tutte le energie disponibili, superando vecchie contrapposizioni e diffidenze. Il campo dei democratici deve organizzare le sinergie possibili tra tutti i soggetti che animano lo spazio pubblico condividendo la stessa cultura costituzionale e democratica, rispettando i rispettivi spazi di autonomia e fuori da ogni tentazione egemonica. Ma è necessario mettere in campo un’alleanza per la democrazia che dia corpo, forza e sostanza ad una alternativa alla deriva in atto nel nostro sistema politico.