Le cattive abitudini dell'Italia in Europa

Written by Adriana Cerretelli Friday, 08 May 2009 17:48 Print

Nel momento in cui in Europa si registrano grandi cambiamenti e l’ingresso di nuovi membri altera equilibri di potere consolidatisi negli anni, un’Italia sempre più provinciale e marginale rischia di rimanere progressivamente esclusa dalle decisioni cruciali. La scelta dei candidati per le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo potrebbe essere il primo passo per un’inversione di tendenza.

Da anni, lentamente ma inesorabilmente, l’Europa sta cambiando faccia. L’Italia in Europa, invece, resta uguale a se stessa, abbracciata al proprio provincialismo, convinta, a torto, che le partite di potere che davvero contano siano sempre quelle che si giocano in casa. Atteggiamento che, per l’ennesima volta, promette di trasformare le imminenti elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo nel solito test casalingo pro o contro il governo in carica, ignorandone la valenza fondamentale, e cioè, come avviene altrove, la scelta di candidati competenti in grado di difendere l’interesse nazionale in Europa.

Archiviato il vecchio sogno federalista, l’Europa sta diventando sempre più intergovernativa e sempre meno comunitaria. La grande crisi economico- finanziaria rischia di accelerare la metamorfosi. L’Unione allargata appare sempre più espressione della sommatoria (confusa) degli interessi nazionali e molto meno quella di un interesse davvero comune, difficile ormai da individuare, se si escludono i valori-base come libertà, pace e democrazia.

Nel nuovo panorama, dove la competizione tra Stati prevale sulla coesione, conta chi riesce con metodo, professionalità e visione a pesare più degli altri sul piatto della bilancia europea. Conta chi sa fare sistema in casa e fuori, chi sa sfruttare al massimo le sinergie tra capitali e istituzioni europee, e viceversa.

Nel gioco di squadra l’Italia dei guelfi e dei ghibellini è invece tradizionalmente scarsissima. Poco male finché l’Europa era una partita bloccata, come è stato fino al 1989. Nella grande Unione dagli interessi in movimento, quel difetto, se non sarà corretto al più presto, rischia di costarci sempre più caro. Dove niente è più garantito, quando sono meritocrazia e competizione a dettar legge, che inevitabilmente è quella del più forte, italocentrismo ed euro- improvvisazione diventano esercizi di puro autolesionismo. Perché chi emerge e vince, o comunque chi si può avvalere del sistema nazionale più attento ed efficiente, è il migliore.

Inoltre, quando oltre l’80% della legislazione italiana è di matrice comunitaria, quando mercato e moneta unica incalzano e pervadono la vita politica, economica, sociale, finanziaria, commerciale di ogni Stato membro, quando insomma l’Europa è ormai un’invasiva realtà quotidiana, attenzione e interesse nazionali non possono più permettersi di guardare altrove. Perché, se l’Europa è in casa, indifferenza, leggerezze o distrazioni sistematiche diventano un lusso proibito; perché gli errori commessi in Europa non si pagano solo in Europa ma anche e soprattutto in Italia.

Le dinamiche di Bruxelles rappresentano il termometro impietoso che misura chi sale e chi scende nella scala del potere europeo, della capacità di influenzare i processi decisional-legislativi sui quali vivono e crescono l’Unione e i suoi singoli paesi. E se è vero che nell’Europa intergovernativa i grandi giochi politici tendono a spostarsi nelle grandi capitali, è altrettanto vero che quelli tecnico-legislativi, cioè l’attuazione concreta dei massimi sistemi, continua a passare attraverso le istituzioni comunitarie, che restano lo snodo centrale della dinamica comunitaria.

Il termometro di Bruxelles dice che tra i grandi la Germania spopola in tutte le istituzioni comunitarie, Francia e Gran Bretagna si difendono bene, la Spagna sgomita, mentre l’Italia arranca nello sforzo di riconquistare il terreno allegramente perduto negli ultimi due decenni. Esercizio non facile in un club dove ormai non si gareggia più tra 6 e nemmeno tra 15, ma tra ben 27 paesi membri, che certo non disdegnano i colpi più bassi.

Se all’interno della Commissione abbiamo registrato un lieve recupero nell’ultimo anno e alla Corte di giustizia siamo in linea con gli altri, nel resto delle strutture europee siamo scarsamente rappresentati, quando non assenti, dai posti che contano.

Era lecito attendersi che il “quinquiennio italiano” (1999-2004) a Bruxelles, con Romano Prodi presidente dell’esecutivo UE e Mario Monti alla Concorrenza – cioè con due dei nostri rappresentanti a ricoprire incarichi di primo piano – si concludesse conil rafforzamento delle nostre posizioni negli organigrammi di quella struttura. Come del resto era sempre accaduto da Delors in poi. Nel nostro caso è successo il contrario: invece di rafforzarci ci siamo indeboliti. Abbiamo infatti perso due direzioni generali strategiche: Affari economici e finanziari e Industria.

Ora abbiamo riconquistato quella per gli Affari economici e finanziari (Economic and Financial Affairs, ECFIN), e ciò significa anche che, ai vertici della Commissione, occupiamo una casella eccellente in più: 8 in totale, se si contano le direzioni generali aggiunte, lo stesso numero della Gran Bretagna, contro 13 della Francia, 12 della Germania e 6 della Spagna (che ha un peso demografico decisamente inferiore).

Se dalla quantità si passa alla qualità dei posti, il confronto diventa però molto meno confortante. Oltre all’ECFIN, abbiamo le direzioni Società dell’informazione, Sviluppo e Servizio interpreti. Gli inglesi controllano invece le direzioni Concorrenza, Allargamento, Sanità e consumatori, Interni e giustizia. I francesi Agricoltura, Fisco, il potentissimo Servizio giuridico, Istruzione e cultura, Personale. I tedeschi, tra gli altri, Ambiente, Energia e trasporti, Fondi regionali, Occupazione, Servizio statistico. Gli spagnoli Relazioni esterne, Bilancio, Ricerca, Informatica.

Al gradino immediatamente inferiore, quello dei direttori, dove con la riforma Prodi è saltato il sistema delle quote nazionali, il deficit italiano è evidente. Abbiamo 20 direttori, la metà della Gran Bretagna (38), circa due terzi di Francia (33), Germania (31) e Spagna (29). Non solo sono pochi, ma spesso hanno funzioni di gestione invece di quelle politiche, che sono invece quelle più utili.

Inoltre, avendo l’Italia, diversamente da Gran Bretagna e Germania, trascurato di coltivare il “vivaio” nei livelli più bassi della gerarchia, non dispone oggi di candidati che possano immediatamente ambire alla carica di direttore. La situazione dovrebbe migliorare nei prossimi anni grazie all’infoltimento nei ranghi dei capi unità: 130, dopo le 10 nomine dell’anno scorso.

Restiamo invece in pessima posizione per quanto riguarda le presenze nei 27 gabinetti dei commissari, antenne indispensabili per cogliere il vento che tira nelle capitali, oltre che in una Commissione che, con José Barroso, assomiglia sempre più al segretariato del Consiglio dei ministri dell’Unione, ossia a una cassa di risonanza e compensazione deivari interessi nazionali, ormai difesi apertamente e senza più pudori da ciascuno dei 27 membri dell’esecutivo europeo.

Su questo fronte strategico l’Italia vanta un unico capo di gabinetto, che è quello del commissario italiano Antonio Tajani, 15 membri di gabinetto, 3 assistenti, 6 archivisti e 4 segretarie. La Gran Bretagna ha 6 capi di gabinetto e 23 membri, la Germania ne conta rispettivamente 6 e 21, la Francia 2 e 23, la Spagna zero e 15.

Al Consiglio dei ministri europei abbiamo un solo direttore generale, oltretutto in uscita, anche se sembra che al suo posto subentrerà un altro italiano. Al Comitato economico e sociale un presidente e dietro il deserto. La stessa cosa, grosso modo, avviene al Comitato delle Regioni.

Se si passa agli altri organismi e agenzie europei, più o meno rilevanti, si scopre che su un totale di 43 strutture l’Italia ne dirige due: il CEDEFOP (Centro per la formazione professionale di Salonicco) e l’ENISA (l’Agenzia per la sicurezza delle reti informatiche di Creta). Anche qui i confronti sono antipatici ma inevitabili: a Londra ne sono attribuiti 8, a Berlino 7, a Parigi 5, alla Spagna 3.

Dulcis in fundo, in questa vigilia elettorale, è d’obbligo una riflessione sul Parlamento europeo. Per presenze nella struttura, decisamente dominata dai tedeschi, ci difendiamo abbastanza bene. Le debolezze congenite del sistema e della classe politica italiana esplodono invece nell’attività parlamentare, nel grigio ma prezioso lavoro delle lobby sull’attività legislativa e regolamentare, che in silenzio ma con metodo impegna quasi tutte le altre delegazioni nazionali, o per lo meno quelle dei paesi che intendono tirare la coperta europea verso i propri desiderata.

Oltre a detenere il record dell’assenteismo e quello degli eurodeputati meglio retribuiti (ma le cose cambieranno nel prossimo quinquennio, con la riforma), siamo anche il paese che in questa legislatura ormai agli sgoccioli ha visto cambiare – fatto senza precedenti – nientemeno che la metà della rappresentanza eletta nel 2004.

Questo significa che la nostra azione a Strasburgo, compresa la tutela degli interessi nazionali, ha dovuto affidarsi nei fatti a un numero di deputati dimezzato rispetto a quelli di Francia e Gran Bretagna, nonostante sulla carta disponiamo di una delegazione parlamentare numericamente identica (78 membri ciascuno).

Ben 38 deputati di quei 78, praticamente tutti i nomi più illustri della politica nostrana, non appena in Italia sono state convocate le elezioni, si sono infatti “pentiti” della scelta europea rinunciando al mandato a Strasburgo per rientrare a Roma. A riprova che, al di là delle parole, per gli italiani l’Europa non è quel “tram chiamato desiderio” che ci propone la retorica ufficiale, ma un temporaneo parcheggio dorato, o, soprattutto, un taxi da prendere o lasciare a seconda delle convenienze del momento. Possiamo allora stupirci se la nostra influenza in Europa è regolarmente in discesa?

Queste manovre disinvolte non solo non sfuggono ai nostri partner, ma prima o poi si pagano. Perché nella nuova Unione non ci sono più rendite di posizione che tengano: se non vengono difese con le unghie e con i denti, finiscono per saltare.

E così, nell’autunno del 2007, in vista della redistribuzione e riduzione dei seggi che avverrà con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’emiciclo ha approvato la proposta franco-romena che, senza sponde compiacenti né alleati comprensivi per il nostro paese a Strasburgo, ha fatto saltare la parità fin qui codificata tra Francia, Gran Bretagna e Italia. Nel nuovo schema, invece dei 78 attuali, uguali per tutti, alla Francia ne venivano assegnati 74, alla Gran Bretagna 73, all’Italia 72 con una perdita secca di 6, la più pesante. Il tutto con una manovra passata del tutto inosservata, agli occhi di chi avrebbe dovuto vedere, fino a voto ormai avvenuto, e quindi troppo tardi per essere fermata.

A tre settimane dalle elezioni, il governo allora guidato da Romano Prodi corse ai ripari in occasione del vertice UE di Lisbona. Ovviamente, il suo intervento in extremis non ha potuto fare miracoli: è riuscito soltanto a ridurre il danno, non a cancellarlo. Fallito il tentativo di cambiare il parametro di valutazione del peso demografico relativo dei singoli Stati, alla fine è riuscito a strappare un seggio in più e il recupero della parità almeno con la Gran Bretagna.

Se la vicenda servisse per il futuro almeno a prendere le istituzioni comunitarie un po’ più sul serio, la lezione potrebbe essere considerata provvidenziale e salutare. Ma non è affatto certo che ciò avvenga.

Benché non abbia tutti i poteri dei parlamenti nazionali, il Parlamento europeo, sia pure con la sua personalità e il suo ruolo ibridi, non è un ente del tutto inutile. Al contrario, con il declino della Commissione tende ad assumere un ruolo politico e legislativo sempre più importante, che crescerà ancora con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Invece, la discontinuità delle nostre presenze nell’emiciclo, l’impossibilità quindi di tessere solidi legami intra-europei e di imparare a fare squadra con gli altri, la scarsissima dimestichezza con le tematiche comunitarie e con le lingue straniere finiscono per relegarci in un ruolo marginale. Troppo spesso vacuo e irrilevante.

Naturalmente vi sono alcune eccezioni, che però si contano sulla punta delle dita e sono frutto di isolate e casuali eccellenze individuali, non di un lavoro metodico e di gruppo di fatto impossibile. Ciò per almeno due motivi. Il primo riguarda il nostro sistema elettorale, che spinge gli italiani alla ricerca del consenso interno oltre che del mantenimento di una presenza sul territorio nazionale, con il risultato che i deputati più attivi all’europarlamento, paradossalmente, rischiano di non essere rieletti.

E poi perché, come se non bastassero le nostre già gravi carenze “professionali”, non perdiamo occasione di accentuarle trasferendo a Strasburgo e Bruxelles il clamore e la rissosità della nostra politica interna, con danni di immagine e di credibilità enormi. Anche perché sono cose che in realtà non interessano a nessuno se non per essere strumentalizzate, quando e se conviene, ai nostri danni.

Dal clamoroso scontro tra il premier Silvio Berlusconi e il leader degli euro-socialisti Martin Schultz, in cui volarono insulti violenti e inusitati, alla celebre guerra al candidato commissario Rocco Buttiglione, dove peraltro anche l’interessato contribuì ampiamente al suo affondamento; dalle crociate anti-TAV dei militanti della Val di Susa, alle improbabili battaglie sul conflitto di interessi berlusconiano (del quale l’Europa si è sempre detta incompetente a giudicare), fino alle denunce sul presunto razzismo antiimmigrati e anti-rom, il quadro che ne esce è sempre quello, paradossale, di un’Italia che, unico esempio del genere tra i ventisette, cavalca l’Europa per farsi del male in Europa.

Prendiamo l’esempio della Spagna, cioè di un paese latino che teoricamente ci assomiglia: stessa politica barricadera e divisiva, stesso “sangue caldo” nell’arena, e stessi scivoloni, per esempio, nell’approccio alla questione della gestione dei flussi migratori, finiti una volta addirittura con l’uccisione di una persona da parte della polizia. Immediata fu la levata di scudi dei popolari europei a Strasburgo e la richiesta di un voto su una risoluzione di condanna del governo socialista di Zapatero. Il Partido Popular si dissociò però apertamente dal suo eurogruppo, sostenendo che mai avrebbe potuto approvare un testo in cui un governo spagnolo veniva rappresentato come artefice di violenza contro gli immigrati. Sarebbe immaginabile una cosa del genere da parte della delegazione italiana?

Proprio grazie alla grande compattezza del suo sistema paese, alla incondizionata difesa della ispanidad, oltre che alla riconosciuta professionalità e impegno della sua classe dirigente, la Spagna ha compiuto in Europa il sorpasso ai nostri danni. Ormai da anni, quando la stampa straniera parla dei grandi dell’Unione cita Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna, dimenticando regolarmente l’Italia.

Già, perché in un’Europa sempre più competitiva, che assomiglia sempre di più al microcosmo del mondo globale in cui tutti i governi sono chiamati a cimentarsi, non è con la casuale conquista di successi e poltrone che ci si può illudere di tutelare status, credibilità e peso specifico di un paese. Tanto più quando da anni ormai l’Unione non è più un optional e nemmeno un piccolo club dove regnano buonismo e spirito di famiglia. In un sistema di potere consolidato ma ormai molto allargato, mobile e ben lubrificato non c’è posto per gli improvvisatori, meno che mai per i dilettanti eternamente allo sbaraglio.

Chi oggi si siede intorno al tavolo europeo deve essere consapevole del fatto che, per vincere la partita della salvaguardia dell’interesse nazionale in quello collettivo (ammesso che esista ancora), non basterà saper giocare un’amichevole briscola strapaesana. Per riuscirci bisognerà saper navigare tra squali accorti che non perdonano gli errori, ma anzi ci sguazzano e li volgono a proprio vantaggio.

Tutto ciò sembra semplice e molto intuitivo. L’esperienza di lungo corso del nostro vissuto europeo avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. Invece, evidentemente, ci è scivolato sulla pelle: tanta retorica e poca sostanza. Ci ha marcato troppo poco, e si vede. Non sarebbe male, allora, se si cominciasse a ribaltare davvero la tendenza con la scelta dei candidati alle prossime europee. Smentendo con i fatti le pessime abitudini dell’Italia in Europa. Una trascuratezza che nuoce pesantemente al paese.