Un bilancio di dieci anni di lavoro

Written by Massimo D'Alema Thursday, 28 February 2008 22:28 Print
Dieci anni fa, all’Istituto San Michele a Ripa, presentammo il progetto della Fondazione Italianieuropei. Tre anni dopo nasceva il bimestrale. Questo primo numero del 2008 è anche il primo numero di una rivista rinnovata, nelle scelte e nella veste grafica e che sarà diretta da Massimo Bray. Speriamo che saprà essere, ancor più che in passato, strumento di confronto e di elaborazione. Dopo dieci anni, è giusto presentare un bilancio della nostra attivita': un lavoro di ricerca e di riflessione che ha accompagnato la vicenda politica e la storia della sinistra italiana. Un lavoro che prese avvio da un colloquio con Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, poi chiamato a un impegno assai più importante. Eravamo allora convinti della necessità di un progetto riformista per l’Italia, che si dispiegasse intorno a tre capisaldi.

Il primo era ripensare l’Italia nel mondo che cambia: l’esigenza che ci mosse, e che era emblematicamente racchiusa nel nome che scegliemmo, fu quella di rivolgere lo sguardo fuori dai confini del nostro paese, consapevoli che le sfide di un nuovo riformismo non potessero prescindere da una dimensione sovranazionale. Fu per questo che dieci anni fa, in un seminario che tenemmo ad Orvieto, dicemmo che il principale compito dei riformisti europei era quello di costruire l’Europa e fare dell’Europa un attore politico in grado di far pesare, nell’arena mondiale e nella sfida della globalizzazione, quella cultura, quei fondamenti, quelle idee-forza che hanno trovato la loro espressione più alta nella civiltà europea. Ed è per questo che, negli anni successivi, abbiamo lavorato per rinsaldare i collegamenti tra le forze dell’innovazione e del cambiamento del nostro paese con i grandi centri dell’azione politica e culturale del riformismo internazionale, in Europa, negli Stati Uniti, in grandi paesi emergenti.

La seconda grande questione da affrontare era il tema del completamento della transizione italiana: fare dell’Italia un paese normale, nel quale il confronto politico avvenga nel quadro di una comune assunzione di responsabilità, in cui l’alternarsi dei governi non produca lacerazioni drammatiche, in cui chi vince le elezioni sia messo nelle condizioni di poter governare. Un progetto di riforma delle istituzioni che muova, dunque, dal reciproco riconoscimento tra le forze in campo. Si è trattato prima di tutto di intraprendere una battaglia sulla cultura politica, se è vero che questa impostazione più volte si è misurata con l’anomalia di una destra italiana segnata dal populismo e dal conflitto di interessi e con il minoritarismo settario che anima una parte della sinistra italiana. Il terzo filone del nostro lavoro è stato la costruzione di un soggetto riformista, a partire dall’esperienza dell’Ulivo e del centrosinistra, attraverso un processo evolutivo che è arrivato a concepire l’Ulivo non soltanto come una coalizione di tipo nuovo, ma come l’incubatore di un nuovo grande partito. Un partito con una cultura politica nuova, un rinnovato radicamento nella società, da costruire e da reinventare non solo per risolvere il caso italiano, ma anche con l’ambizione di contribuire ad un rinnovamento della sinistra in Europa. Le ragioni e l’analisi che ci spinsero allora a impostare su queste basi il lavoro della Fondazione appaiono oggi ancor più attuali e necessarie, in una fase in cui il paese vive una difficile crisi e in cui le ragioni di preoccupazione non diminuiscono se si sposta lo sguardo fuori dai nostri confini.

È evidente che siamo in un passaggio molto importante della vicenda internazionale. L’esaltazione acritica della stagione neoliberista, l’idea che la fine della politica, la fine della storia e l’avvento dell’ideologia del mercato segnassero l’inizio del migliore dei mondi possibili, si è rivelata mendace. Oggi viviamo un mutamento anarchico, segnato dal declino dell’unilateralismo americano, ma assai diverso da quel multipolarismo ordinato verso il quale il mondo sarebbe dovuto andare. Gli strumenti di governo dei processi globali mostrano sempre più la loro inadeguatezza, come le recenti crisi finanziarie hanno testimoniato, con i loro effetti devastanti non solo sui mercati, ma anche sulla vita di centinaia di milioni di donne e di uomini indifesi. Ma la globalizzazione non è un gioco a somma zero, nel quale se cresce la ricchezza e il potere di un paese, ciò deve inevitabilmente essere pagato da altri paesi. La globalizzazione è un processo carico di contraddizioni, nel quale convivono ingiustizie e opportunità, dove un paese come il nostro avrebbe occasioni importanti per affermare il suo ruolo e conquistarsi un avvenire di sviluppo e benessere. Non è un caso che le nostre esportazioni siano cresciute del 12% nell’ultimo anno.

È bastato guardare al mondo con una volontà di sfida e non rimanere prigionieri della cultura della paura, che ha segnato gli anni di governo di centrodestra. È bastato capire che la crescita di un grande paese come la Cina non poneva solo problemi in alcuni settori, ma poteva anche determinare la crescita di un grande mercato, in cui la qualità italiana avrebbe trovato spazio. Insomma, è bastato non avere paura del mondo e avere un po’ più di fiducia nelle capacità imprenditoriali, nella fantasia, nell’intelligenza degli italiani, per tornare ad essere competitivi. E ciò è stato possibile perché la politica ha indirizzato questi processi, riallacciando i rapporti con i grandi paesi dell’America Latina e dell’Asia e tornando ad avere un rapporto positivo con il Medio Oriente. Dunque, il mondo che cambia non è necessariamente il ring dal quale saremo espulsi.

Per tanti anni, nel dopoguerra, l’Italia è stata aiutata dalla sua collocazione internazionale e da un sistema di alleanze determinato dalla guerra fredda. Un paese che ha affidato al processo di integrazione europea la propria modernizzazione e all’Alleanza atlantica il proprio ruolo internazionale e la propria sicurezza. Oggi, invece, viviamo un sistema di relazioni internazionali molto più aperto e problematico: ci sono nuove opportunità, ma, indubbiamente, siamo meno garantiti che nel passato. Per questo, sono convinto che molto dipenderà da noi stessi, dall’ossatura del paese, dalla forza delle sue istituzioni, dalla coesione delle sue classi dirigenti. Ecco perché non possiamo non guardare con preoccupazione, oggi come dieci anni fa, alla vicenda italiana, al completamento della nostra eterna transizione. Siamo di fronte ad una crisi che spinge, innanzitutto, a tornare a riflettere sul paese, sul suo futuro, sulle ragioni profonde delle sue difficoltà. A ritrovare nei fondamenti le ragioni per continuare una battaglia e l’energia per affrontare una sfida che non sarà facile e che probabilmente sarà lunga, per ricostruire un progetto di governo della sinistra democratica in grado di offrire una risposta alla crisi dell’Italia.

Una crisi che va al di là delle questioni dell’agenda quotidiana, che non è solo crisi del sistema politico e di questa forma di bipolarismo, ma anche delle classi dirigenti del paese. Una crisi che sembra portare con sé il venir meno delle ragioni dello stare insieme, il prevalere diffuso del particolarismo, dell’interesse personale, di gruppo, localistico, di ceto, rispetto all’interesse di tutti, all’amore verso l’Italia e all’impegno per costruire un comune destino degli italiani. Sarebbe, quindi, fuorviante leggere questa fase con la categoria della crisi di un ceto politico o, peggio, di uno scontro tra caste. Anche perché gli anni Novanta ci hanno dimostrato che liquidare una classe politica sostituendola con una classe dirigente proveniente dal presunto eldorado della società civile non ha affatto risolto i problemi del paese.

D’altro canto, è quantomeno improbabile che, in un paese in cui il mondo politico appare spesso dominato da un particolarismo rissoso, da una mancanza di senso delle istituzioni, possano esservi categorie, poteri dello Stato o ceti professionali, i quali, provenienti dalle stesse famiglie, dalle stesse scuole, dagli stessi ambienti dei politici, vivono soltanto all’insegna della serietà e della deontologia professionale.

A tale crisi, che attraversa orizzontalmente le classi dirigenti, è necessario dare una risposta che sia insieme istituzionale, politica, culturale. Occorre una riforma morale e intellettuale del paese. C’è bisogno di grandi forze, di una grande capacità di lotta politica e di pensiero, di un impegno di lunga lena. Noi a questo impegno intendiamo continuare a contribuire, con uno sforzo di riflessione e di elaborazione. Siamo stati e continueremo ad essere un laboratorio di innovazione politica e culturale, una sede di ricerca e di proposta programmatica, in tutti i campi.

Continueremo a farlo legando la nostra attività a quella del Partito Democratico, il soggetto politico a cui abbiamo lavorato in questi anni, consapevoli che la sua nascita fosse indispensabile alla soluzione della crisi italiana.

Molti sono stati, fortunatamente, i padri del Partito Democratico, che nasce dall’impegno di ispirazioni culturali diverse. Riteniamo di avere concorso a questo sforzo, proprio dalle pagine di questa rivista, con la lettera aperta che nel 2002 Giuliano Amato ed io inviammo ai dirigenti del PSE con l’invito a fondare una nuova casa dei riformismi europei, a rompere i confini angusti di una visione ristretta del socialismo europeo, con la necessità di costruire in Italia un nuovo soggetto riformista a vocazione maggioritaria.

Oggi più che mai è necessario che sia in campo un progetto come questo, nazionale ed europeo, animato dal senso dell’interesse generale del nostro paese, orientato verso le riforme e l’innovazione, che guardi alla costruzione del Partito Democratico come al grande processo politico nuovo a cui legare il destino anche della nostra Fondazione. Un grande partito, infatti, non può rinunciare ad essere un centro di elaborazione culturale, di proposta, di selezione e formazione della classe dirigente. Altrimenti, il rischio è che la politica perda di autonomia culturale, vivendo soltanto delle idee che le vengono da centri di elaborazione espressione di altri poteri, con i quali si deve interloquire in modo aperto, ma a partire da una propria capacità di analisi e interpretazione della realtà. In questo processo, questa istituzione continuerà ad esserci. La Fondazione Italianieuropei è stata e continuerà ad essere un centro propulsore della ricerca e dell’innovazione, un luogo dove la politica si incontra con il mondo della cultura e dell’economia, dove la sinistra democratica e riformista italiana continua a discutere con le forze più vive della politica e della cultura dell’Europa, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Noi vogliamo costruire il nuovo, ma sappiamo anche che il nuovo non è mai un’invenzione e richiede sempre la pazienza di un confronto con le proprie radici storiche e ideali. È inevitabile continuare a fare quel difficile lavoro di selezionare ciò che è vivo e ciò che è morto, ciò che dev’essere cambiato e ciò che, in modi diversi, continua a vivere nella storia di un grande movimento collettivo. Questo è quello che la nostra Fondazione intende continuare a fare, lavorando insieme ad altri organismi, associazioni, fondazioni che hanno storie diverse.

Noi staremo in questo campo di forze che sarà il PD, inevitabilmente legati a quei fondamenti, a quelle idee-forza che vengono dalla storia della sinistra democratica e riformista di ispirazione socialista. In particolare dalla storia di quelle forze che hanno incarnato, nel nostro paese, questa grande tradizione.