Verità

Written by Massimo Adinolfi Monday, 22 December 2008 20:05 Print

«Il cuore che non trema della ben rotonda verità», come lo chiamava il primo che cercò di darne logicamente conto, Parmenide, ha assunto, dopo oltre due millenni, grazie al logico polacco Alfred Tarski, un aspetto decisamente più banale. Non c’è più nessuna dea che ai filosofi si rivolga in versi, oltre il bivio dei sentieri del giorno e della notte; molto più prosaicamente, sta semplicemente il fatto che una proposizione “p” è vera se e solo se p (“la neve è bianca” è vera se e solo se la neve è bianca).


Logici e filosofi hanno naturalmente motivo di discutere sui limiti della teoria tarskiana della verità (che si formula in un linguaggio, e non in ogni linguaggio, e non si impegna circa la natura ultima di ciò che rende vera questa o quella proposizione), ma è indubbio che la spiegazione di Tarski coglie il nucleo basilare dell’idea di verità, o almeno: esprime quel che pare sufficiente per gli usi ordinari della nozione, ossia in tutti quei casi in cui pare sensato richiamarsi ai fatti, così che le proposizioni che li concernono possano essere ritenute vere o false a seconda che corrispondano o meno ai fatti stessi. Ma vi sono “i fatti stessi”? Una delle porte d’ingresso del Novecento, in filosofia, è offerta dalla celebre tesi, secondo cui «proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni». La tesi, che fu di Nietzsche, ha funzionato come un magnete per ogni genere di relativismo, soggettivismo, prospettivismo, scetticismo e, infine, nichilismo (senza che tutti questi “ismi” dicano il medesimo, beninteso). A quanto pare, però, la tesi di Nietzsche non mette in discussione la nostra ordinaria intuizione circa la verità: vi fossero i fatti, le proposizioni sarebbero ancora vere o false in ragione della loro corrispondenza ad essi. Se dunque i fatti non ci sono, non è che la verità muti carattere: rimane la stessa; solo, non è più di questo mondo – cioè del mondo descritto da Nietzsche nei termini di una contesa di potenza fra interpretazioni rivali.
Ciò detto, come si potrebbe mai stabilire se vi siano o non vi siano i fatti? Non è questa una domanda abbastanza insensata? A parte il non irrilevante dettaglio che la sparizione dei fatti sarebbe essa stessa un fatto (perciò si può ancora domandare: è vero o no che i fatti non ci sono?), è in realtà l’intera pratica – o, come spesso si dice, il gioco linguistico – dello “stabilire” che è essenzialmente legata alla nozione di fatto: il che, peraltro, non significa che la verità di una proposizione si riduce all’accertamento dei fatti, ma vuol dire che noi ci impegniamo ad accertare i fatti, e così a giustificare le  roposizioni, solo a condizione che vi siano fatti rispetto a cui condurre accertamenti e giustificare proposizioni. La condizione non può però, a sua volta, essere stabilita, essendo il presupposto del gioco stesso dello stabilire.
C’è quindi, alla base della verità così come ordinariamente la intendiamo, un impegno inaugurale per essa, in forza del quale cerchiamo di giustificare le nostre proposizioni (e credenze, e teorie). Altrettanto bene possiamo, in certi casi, disimpegnarci rispetto ad essa. È quel che succede secondo molti nell’arte, dove non sembrano esservi obblighi di corrispondenza ai fatti e dove quindi pare che non ne vada della verità. In realtà, è più probabile che persino l’arte abbia il significato di un esperimento con la verità, piuttosto che di un puro capriccio fantastico. A maggior ragione, perciò, è lecito sospettare che altre dimensioni importanti dell’esperienza umana in cui pure sembra che non vi siano meri “fatti” a cui riferire le nostre proposizioni, per esempio l’ambito politico e morale, richiedano comunque un impegno con la verità.
Si suole dire che in questi ambiti ogni opinione è legittima. Ma il punto è se si vuole escludere con ciò che un’opinione possa essere considerata falsa, non essendovi nulla di “oggettivo” che l’opinione debba rispecchiare. Come però nell’ambito della vita del singolo individuo si può ritenere che, entro certi limiti, è giusto che ciascuno commetta errori e impari da sé, così anche si può considerare che la pluralità delle opinioni (anche errate) è una scuola importante per la società nel suo insieme. Si può insomma ritenere il pluralismo un valore fondamentale, senza sostenere che tutte le opinioni siano di egual valore (e, in particolare, che tutte siano vere). D’altronde, nessuno si comporta davvero, nei casi ordinari della vita, come se tutto avesse uguale valore. Né la possibilità di trovare ragioni très métaphysiques per dubitare di ogni cosa equivale a dubitarne effettivamente.
A volte si afferma che il punto di vista della verità va neutralizzato, perché altrimenti l’ordinamento democratico, il cui valore ci appare irrinunciabile, sarebbe compromesso dalla pretesa violenta di imporre l’unica opinione vera sulle molte, false opinioni. Se siamo però d’accordo sul fatto che il nostro paese è una democrazia, come sfuggire all’impressione che per essa le opinioni non sono affatto tutte uguali e tutte ugualmente rispettabili? Basta dare un’occhiata ai principi fondamentali della Costituzione, per convincersene. E se, d’altra parte, in gioco fossero sempre solo preferenze soggettive, in che modo si potrebbe giustificare la centralità di una istituzione come il Parlamento?
Non ha alcun senso parlamentare, se si ritiene che le questioni di valore siano in tutto assimilabili a questioni di gusto. Checché se ne dica, anche le moderne democrazie si impegnano dunque con la verità – il che non impedisce, per ragioni che non bisogna esitare a definire politiche, che su alcune questioni sia invece necessario disimpegnarsi (per esempio per non precipitare in nuove guerre di religione).
Come si vede, non c’è bisogno di banalizzazioni relativistiche, per condividere l’affermazione di Foucault, secondo il quale «ogni società ha il suo regime di verità, la sua ‘politica generale’ della verità », cioè le sue ragioni di impegno e di disimpegno. Foucault continuava sostenendo che la società “decide” anche «i tipi di discorsi che accoglie e fa funzionare come veri », e la cosa viene presa come se quel che viene così messa in conto è la possibilità che si decida (e non, banalmente, si accerti) se ad esempio sia il sole a ruotare intorno alla terra, o il contrario. Ma quel che sta sempre sul crinale di una decisione è piuttosto l’impegno inaugurale, cioè i modi e le forme ma anche i soggetti e le forze che hanno accesso alla verità e ne stabiliscono il regime. La verità diventa così anche una questione di potere: il che però non ne vanifica affatto lo statuto, ma casomai richiede un più robusto impegno politico in suo nome.