Il ruolo del settore pubblico nello sviluppo economico dell'Italia

Written by Salvatore Vinci e Concetto Paolo Vinci Monday, 22 December 2008 19:10 Print

La recente crisi economico-finanziaria va assumendo contorni sempre più inquietanti e sta riproponendo all’attenzione del dibattito politico l’annosa questione dell’intervento pubblico in economia, che viene da più parti invocato quale unica possibilità di superamento dell’attuale stato di crisi. Anche in Italia, dove la crisi si presenta aggravata dal persistere da molti anni di insoddisfacente crescita e dall’aumento di alcuni squilibri distributivi, si invoca da più parti il ritorno ad una politica interventista per traghettare il paese fuori dalla recessione.

La problematica del ruolo dello Stato nello sviluppo economico è questione antica che ha appassionato, e tuttora appassiona, legioni di studiosi di varie discipline e che si ripropone continuamente in funzione delle alterne vicende attraversate dalle varie realtà economiche nazionali. In queste sede ci si propone di svolgere una breve disamina della questione, trattandola in qualità di economisti e con riferimento alla situazione italiana nell’epoca successiva alla seconda parte del secolo scorso e al primo decennio del presente millennio. Questa precisazione è necessaria per evidenziare due ragioni di parzialità implicita nella presente analisi, e cioè dichiarare la consapevolezza che l’argomento trattato non riguarda solo gli economisti e che di questo tema non è possibile un’analisi puramente scientifica, a causa del fatto che le posizioni ideo- logiche non possono non influenzare l’esposizione di quanti trattano tale questione. Su questo argomento le opinioni e le risposte fornite dalle stesse persone sono state talvolta contrastanti, a seconda del periodo in cui esse venivano formulate. In particolare, va segnalata la posizione di coloro i quali hanno spesso mostrato di non avere dubbi sulle opinioni da assumere, tacciando al contempo di incapacità a scegliere quanti, data la complessità della questione, mostravano invece dei dubbi. Per chi scrive i dubbi sono stati spesso più delle certezze, tuttavia questo non significa non essere stati in grado di effettuare scelte sia scientifiche che politiche quando si è stati chiamati a farle, ma che tali scelte sono state fatte nella consapevolezza che le ragioni di quanti la pensavano diversamente andavano tenute nella giusta considerazione. In altri termini, sulla questione sono accettabili, purché in buona fede e non dogmaticamente espresse, posizioni diverse.

Facendo riferimento alle vicende economiche italiane a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale è possibile arrivare a formulare giudizi diversificati, a volte contrapposti, sul ruolo che il settore pubblico ha esercitato nello sviluppo economico italiano. Nell’immediato dopoguerra, il cosiddetto periodo della ricostruzione, non solo materiale ma anche politica, il settore pubblico, ovvero lo Stato, svolse un ruolo propulsivo significativo, tanto da vedere riconosciute a livello internazionale la positività e la rilevanza del suo operato, fino, addirittura, a diventare oggetto di attenzione e studio a livello internazionale, e ad essere citato anche come esempio da seguire per altri sistemi economici in via di sviluppo. Dopo un accanito dibattito in sede costituente sul ruolo e sul contenuto specifico che doveva avere l’intervento statale, il settore pubblico – spesso lasciandosi alle spalle la velenosa opposizione dei fautori di tendenza contraria e facendo prevalere il buon senso – adottò una serie di misure dirette e indirette che contribuirono in maniera significativa a rendere possibile quel robusto processo di crescita negli anni Cinquanta, che sarebbe culminato nel miracolo economico dei primi anni Sessanta.

Vanno annoverati interventi indiretti, quali la scelta di aprire agli scambi con l’estero un sistema economico inizialmente fortemente chiuso, nonostante il disappunto delle forze economiche e so- ciali dell’epoca; l’adesione al processo di integrazione economica dei paesi europei (una scelta questa non esclusivamente economica, ma dalla forte valenza politica); e gli interventi più economici, quali lo sviluppo del sistema delle partecipazioni statali, del sistema creditizio, le misure infrastrutturali per l’avvio dello sviluppo economico del Mezzogiorno e il “piano casa”, a torto sottovalutato nell’analisi delle determinanti del cosiddetto periodo aureo della crescita economica italiana.

Le cose cambiarono negli anni Sessanta con l’apparire delle prime crepe nel processo di sviluppo economico. Si verificarono una serie di eventi che videro protagonista il settore pubblico. Si cominciò con la nazionalizzazione del settore elettrico – che deve essere qui considerata non semplicemente in quanto ebbe luogo, ma per come essa venne concretamente realizzata – e si continuò con la decisione di impegnare massicciamente il settore delle partecipazioni statali nello sviluppo del Mezzogiorno, usato come avamposto di un processo di rafforzamento dell’ingerenza pubblica nell’economia. Tutto ciò ebbe luogo nel momento in cui le partecipazioni statali subivano l’assalto della classe politica e mostravano, come in tutte le alterne vicende economiche, di avere imboccato la via di quel processo involutivo che, nel giro di un ventennio, le avrebbe trasformate da punta avanzata dell’intervento pubblico in una zavorra per l’economia italiana e in un fattore significativo nello sperpero di risorse finanziarie private e pubbliche. Inoltre, nel tentativo di avviare un moderno sistema di welfare – in un paese fortemente arretrato rispetto ai partner economici – il settore pubblico mise in cantiere una serie di iniziative (comunemente chiamate riforme) il cui impegno finanziario avrebbe cominciato a manifestarsi negli anni Sessanta e Settanta, ma i cui effetti devastanti sul settore pubblico si sarebbero realizzati a partire dagli anni Ottanta. Naturalmente le vicende di quegli anni non possono essere analizzate disgiuntamente dalle vicende politico- sindacali dell’epoca e da quanto stava avvenendo sul panorama politico internazionale, ma non è questa la sede per affrontare il tema, soprattutto se si vuole illustrare quanto accaduto in campo economico in quegli anni senza la pretesa di giudicare. Il risultato, comunque, fu che la fama positiva che l’intervento pubblico in Italia si era guadagnato finì inevitabilmente per capovolgersi e che gli strumenti per l’intervento statale in economia vennero drasticamente ridotti. Le partecipazioni statali furono ridimensionate, il processo di privatizzazione venne ritenuto inevitabile non soltanto in termini ideologici, ma in quanto elemento necessario per salvare dal disastro l’economia italiana soffocata dall’imponente debito pubblico nazionale.

Il secolo scorso si chiuse con lo smantellamento della strumentazione dell’intervento pubblico in Italia, al quale si deve aggiungere, per quanto riguarda la liquidazione degli strumenti governativi centrali, proliferati nel passato, il ridimensionamento significativo del ruolo della banca centrale nazionale, sostituita dalla Banca centrale europea, sorta in seguito alla creazione della moneta unica europea.

In epoca di globalizzazione può sembrare insensato un rimpianto nostalgico verso strumenti e organismi di intervento pubblico legati all’organizzazione statale, ma una qualche attenzione deve essere riservata alla struttura statale in un momento in cui l’Unione europea presenta larghi vuoti: se è vero, infatti, che l’unione monetaria europea è stata realizzata, dal lato della finanza pubblica ancora oggi l’unificazione europea è tutta da costruire, per tacere di altre questioni più strettamente politico-militari. Questa non vuole essere una critica all’adesione italiana all’unione monetaria europea, né tantomeno un’analisi dei vantaggi e dei costi, ma è opportuno osservare che al momento la strumentazione di politica economica a disposizione dell’amministrazione pubblica nazionale è fortemente ridimensionata rispetto al passato – non soltanto per via del forte debito pubblico nazionale – e che prevale una corrente pensiero fortemente e pregiudizialmente negativa nei confronti dell’intervento pubblico in economia. Non si può non ricordare come l’ultimo ventennio abbia visto la fortissima affermazione, a livello economico (per sorvolare sull’aspetto politico), di una letteratura tutta protesa a magnificare le meravigliose capacità di regolazione del mercato, in grado di assicurare condizioni di efficienza e uso ottimale delle risorse. Certo, a voler essere completi, i più attenti sostenitori delle virtù del mercato, citavano alcuni problemi connessi all’equità distributiva e mettevano in guardia contro alcuni aspetti non facilmente accet- tabili dell’operare del meccanismo dei mercati, ma a lungo andare il sistema economico, sull’onda dell’uso più efficiente delle risorse, avrebbe trovato il modo di sopperire ad eventuali inconvenienti e incidenti nei percorsi ottimali.

Keynes e le politiche keynesiane furono riposti in soffitta. Il ridimensionamento del pensiero keynesiano sembrava definitivo e fautori sempre più accaniti del laissez-faire trovavano sempre più spazio, non solo e non tanto nei dibattiti e negli scritti degli economisti di professione, ma per orecchie politiche sempre più inclini ad accogliere il verbo dei nuovi maestri. La classe politica si mostrò sempre più propensa a dare ascolto alle idee innovative (che poi erano sempre vecchie concezioni che avevano subito dure lezioni dalla storia e dagli accadimenti economici, e che avevano il solo pregio di essere riproposte in forma nuova e formalmente più rigorosa – la forma matematica – per accrescerne il fascino “scientifico“).

Il riferimento al dibattito teorico non deve essere visto come mero vezzo di uno studioso di economia, ma come richiamo al fatto, da non sottovalutare mai, che la trasformazione del clima culturale è indispensabile per favorire cambiamenti di opinione sulla questione oggetto del presente scritto, e cioè di come possa essere valutato il ruolo del settore pubblico nello sviluppo economico di un paese. Quanto appena detto è significativo per capire il compito difficile che dovranno affrontare quanti vogliono riportare sotto i riflettori, e nel giusto posto, la seguente questione: cosa può fare il settore pubblico nella situazione attuale e per il futuro prossimo dell’economia italiana.

La crisi finanziaria scoppiata negli ultimi mesi si associa ad una crisi reale che è stata segnalata di recente, ma che di fatto era in atto già prima dell’estate appena trascorsa. I segnali della recessione economica c’erano tutti, ma soltanto il disperato tentativo di non rompere la “luna di miele” tra governo appena eletto ed elettorato – che si illudeva di trovare una soluzione al proprio malessere cambiando la coalizione di governo – non ha consentito di prendere atto di come stavano precipitando l’economia nazionale e quella internazionale. Soltanto l’esplosione della crisi finanziaria internazionale ha costretto tutti a riconoscere che si preparavano tempi duri per la gran parte delle economie del globo. Riguardo alla situazione italiana, va ricordato che la crisi reale e finanziaria è stata preceduta da una lunga fase di stagnazione o crescita lentissima, che ha riguardato governi di diverso colore, per cui non si può non concludere che malesseri strutturali da tempo erano presenti nel nostro sistema economico. Che si trattasse di malesseri strutturali era evidenziato dal fatto che il termine “declino” era adoperato sempre più spesso nel dibattito politico, senza che però ci si sforzasse di trovare soluzioni forti per invertire la rotta che da troppi anni caratterizzava il sistema economico nazionale. Adesso che tutti i segnali sono chiari, e che abbondano i riferimenti alla grande crisi degli anni Trenta del secolo scorso – anche se non mancano, nell’una e dell’altra parte politica, “pompieri” che ritengono che da quella crisi lontana sono venuti insegnamenti tali da rendere ottimisti – si ritorna a porre la domanda se il settore pubblico possa risultare decisivo per uscire dalla crisi.

Indubbiamente da un lato c’è da essere ottimisti in quanto le lezioni del passato dovrebbero, almeno a livello internazionale, avere vaccinato definitivamente le economie più forti dall’assumere posizioni protezionistiche. D’altro canto, però, sussistono forti preoccupazioni e incertezze sul futuro che non lasciano completamente tranquilli. Ad esempio, il fatto che la più forte potenza economica, politica e militare del mondo sia stata impegnata per oltre un anno in campagne elettorali e che soltanto all’inizio del nuovo anno si insedierà il nuovo presidente statunitense non favorisce certo tranquillità, anche perché a parte la simpatia e la rivoluzionaria personalità del nuovo presidente, ben poco si sa di quale sarà l’orientamento sulla gravissima crisi internazionale del neo presidente. Allo stesso modo, il ritardo con cui un’altra grande potenza economica, l’Unione europea, si muove per motivi squisitamente politici non è rassicurante. E così si potrebbe continuare a citare altri elementi di preoccupazione internazionale. Assumendo che tutte le incertezze internazionali possano essere brillantemente fugate, è necessario occuparsi in questa sede della situazione italiana. Per fare ciò si elencheranno innanzitutto le peculiarità e le problematiche del sistema economico nazionale, per poi tornare a quale ruolo potrà svolgere il settore pubblico. Per sommi capi è possibile distinguere le seguenti caratteristiche: a) in Italia il meccanismo di accumulazione è da tempo inceppato, per cui da troppo tempo il tasso di crescita dell’economia è troppo lento; b) la distribuzione del reddito tra i vari gruppi presenta disuguaglianze sempre più marcate, e la distribuzione sul territorio non manifesta alcun segno tangibile di riequilibrio, anzi le regioni più povere vedono via via accrescere la distanza che le separa dalle più fortunate regioni nazionali ed europee; c) la situazione finanziaria del settore pubblico non migliora significativamente, dopo un lungo periodo di deterioramento.

Prima di spiegare nel dettaglio le affermazioni di cui sopra, preme sottolineare che l’ordine in cui sono state elencate le caratteristiche della situazione italiana indica quali dovrebbero essere le priorità della futura politica economica. Purtroppo, larga parte dell’opinione pubblica, generale e specialistica, tende a porre come priorità assoluta la terza (lo stato della finanza pubblica), la cui soluzione viene vista come premessa per aggredire le prime due anomalie nazionali. Tanti anni di politiche dirette a “risanare” la finanza pubblica non hanno sortito l’effetto desiderato, se non in misura limitata e per periodi di tempo limitati. Il risanamento della finanza pubblica è invece un problema la cui soluzione richiede tempi medio-lunghi, per cui è sbagliato porlo come presupposto per avviare lo sviluppo. È vero l’opposto: solo un processo di sostenuto sviluppo potrà, adottando i corretti comportamenti, consentire un miglioramento sostanziale e duraturo dello stato della finanza pubblica. Impegnarsi a risanare la finanza pubblica nel medio-lungo periodo significa trovare un accordo significativo e vincolante con gli organismi del governo comunitario e tra le parti politiche all’interno.

Tornando al meccanismo dell’accumulazione inceppato va detto che ciò è avvenuto tanto per le carenze del settore privato quanto di quelle del settore pubblico. I grandi gruppi privati da tempo si sono limitati a gestire le posizioni di rendita, rinunciando alle iniziative rischiose; l’attività dei piccoli imprenditori, invece, per quanto altamente meritoria, è insufficiente a coprire le lacune delle carenze di iniziative strategiche che solo i grossi gruppi possono svolgere. Il contributo alla ripresa del meccanismo di accumulazione da parte del settore pubblico si è ridotto ad un sostegno dei consumi, con scarsa attenzione al ruolo insostituibile dello Stato nella fornitura delle tre forme di capitale di sua per- tinenza: capitale fisico (infrastrutture in senso lato); capitale umano (istruzione, ricerca); capitale sociale (garanzia dei diritti fondamentali, con servizi all’altezza di un paese che aspira a far parte dell’élite mondiale). La miscela delle carenze di cui sopra giustifica gli insoddisfacenti risultati in termini di crescita dell’economia italiana. Non vale la pena di attardarsi sulle dimensioni delle carenze da attribuire alle parti in causa, si tratta di chiudere definitivamente con il passato recente, prendendo coscienza che, continuando così, l’Italia continuerà a “vivacchiare” stentatamente in una cronica situazione di ristagno e lamento.

L’aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito tra gruppi e territori ha tante cause, su cui non ci si vuole dilungare. È però necessario segnalare che se non si procede in modo da voltare pagina nella considerazione di questo fenomeno, difficilmente sarà possibile il rilancio del meccanismo di accumulazione. Tale rilancio richiede una coesione sociale altrimenti impossibile nell’attuale condizione di disuguaglianza. È forse venuto il momento di finirla di usare il fisco come una clava a favore dei propri sostenitori politici, così come spesso è avvenuto in questi anni (in qualche caso la clava – indipendentemente dalle intenzioni – ha finito per colpire i propri sostenitori politici), e di preoccuparsi invece di collegare la politica fiscale anche alla destinazione della spesa pubblica. Infine sul terzo punto, oltre a quanto affermato in precedenza, c’è da dire che la composizione della spesa pubblica deve essere più attentamente valutata, anche alla luce delle profonde trasformazioni demografiche in atto. In altre parole, bisogna abbandonare il criterio della spesa storica, da modificare soltanto al margine, e tenere presente che in alcuni momenti è indifferibile un cambiamento radicale nella destinazione della spesa (ovvero, è opportuna una maggiore flessibilità nelle poste della spesa pubblica per il welfare).

Può sembrare stravagante che si sia taciuto fino a questo momento del problema occupazionale. Ciò non deriva da una mera dimenticanza, o dal suo inserimento nel più generale problema dell’accumulazione, di cui invece si è trattato, ma da un rinvio ad analisi più specifiche e più puntuali. Solo in parte la crescita economica può rappresentare la soluzione del problema occupazionale nazionale e ciò perché con i movimenti demografici in atto all’in- terno dell’Unione europea e con le fortissime correnti migratorie dai paesi extracomunitari, un aumento della produzione nazionale non necessariamente si accompagna alla soluzione del problema occupazionale nazionale. Questo fatto non può e non deve essere attribuito solo ad una parte del mercato del lavoro (i produttori), ma investe entrambe le parti, perché non si può sottovalutare che le preferenze dell’offerta di lavoro nazionale non vanno verso certe tipologie di attività lavorative. Ciò, senza puntare l’indice su qualcuno in particolare, spiega perché si abbiano in Italia tanti lavoratori stranieri regolari (e questo si verifica sia nelle regioni con piena occupazione, sia in quelle con forte disoccupazione). Allo stesso modo, un aumento della produzione nazionale non necessariamente si realizzerà nelle regioni in cui più alta è la disoccupazione, per cui non ci si può aspettare per questa via una soluzione del problema occupazionale nelle regioni con forte disoccupazione. Nel mercato del lavoro, per diverse ragioni, è in atto un fenomeno di mismatch strutturale che deve essere affrontato con strumenti diversi dal prezzo. Quanto detto conduce ad una sola conclusione: il futuro richiederà un forte intervento pubblico, perché gran parte delle questioni non si prestano ad essere risolte da semplici meccanismi di mercato. In molti casi le condizioni che rendono preferibile il ricorso al mercato sono assenti, perché mancano i presupposti perché un mercato specifico esista (capitale sociale, interventi sulla distribuzione), perché il prezzo non è sufficiente per equilibrare una condizione di squilibrio, o perché ci si trova di fronte a monopoli naturali (molte infrastrutture).

Per concludere è necessario lanciare un avvertimento: il tipo di intervento pubblico ipotizzato su queste pagine non ha niente a che vedere con l’intervento che sembra oggi auspicato, per superare la crisi presente, da larga parte di coloro che finora si erano dichiarati fieri nemici dell’intervento pubblico in economia. Sono questi interventi di breve periodo sui quali non si vuole esprimere alcun giudizio, se non quello che comunque essi non saranno risolutivi dei problemi a cui si è fatto riferimento in questo contributo.