2008: la fine della globalizzazione neoliberista

Written by Immanuel Wallerstein Tuesday, 09 December 2008 16:30 Print
L’epoca dell’indiscusso predominio dell’ideologia della globalizzazione neoliberista sembra volgere al termine, così come sembra vengano rimessi in discussione tutti i corollari politici che ne derivavano. Il ciclo che seguirà alla conclusione di questa fase storica sarà in grado di riportare l’equilibrio nel sistema mondiale?

L’ideologia della globalizzazione neoliberista è stata in auge fin dall’inizio degli anni Ottanta. Nella storia del sistema mondiale moderno, in realtà, non era un’idea nuova, anche se sosteneva di esserlo. Si trattava piuttosto di quella vecchissima tesi secondo la quale i governi del mondo dovevano farsi da parte e lasciare spazio ad imprese efficienti e di grandi dimensioni, perché queste prendessero il sopravvento sul mercato mondiale. La prima implicazione politica era questa: i governi, tutti i governi, avrebbero dovuto permettere a queste corporation di varcare liberamente ogni frontiera con le proprie merci e i propri capitali. In base alla seconda, i governi, tutti i governi, avrebbero dovuto rinunciare a qualsiasi titolo diretto di proprietà su tali imprese e privatizzare tutto quello che possedevano. Secondo la terza implicazione, infine, i governi, tutti i governi, dovevano ridurre al minimo, se non eliminare del tutto, ogni forma di contributo di social welfare alla popolazione. Si tratta di vecchie idee che si ripresentano ciclicamente nella storia.

Negli anni Ottanta, esse furono avanzate in contrapposizione alle altrettanto vecchie tesi keynesiane e/o socialiste, che allora prevalevano nella maggior parte dei paesi del mondo, secondo le quali le economie dovevano essere miste (imprese pubbliche più imprese private), gli Stati dovevano proteggere i propri cittadini dallo sfruttamento di grandi imprese straniere quasi monopolistiche e questi stessi Stati dovevano cercare di garantire pari opportunità di vita assicurando vantaggi ai propri abitanti meno abbienti (soprattutto offrendo istru- zione, assistenza sanitaria e livelli di reddito garantiti per tutto il corso dell’esistenza), il che imponeva evidentemente un’imposizione fiscale ai cittadini più ricchi e alle imprese private.

Il programma della globalizzazione neoliberista approfittò della stagnazione mondiale dei profitti, che era cominciata dopo il lungo e inedito periodo di crescita globale che ebbe luogo tra il secondo dopoguerra e i primi anni Settanta, una crescita che aveva favorito la prevalenza di concezioni keynesiane e/o socialiste in politica. La stagnazione dei profitti causò problemi alla bilancia dei pagamenti di un gran numero di Stati, soprattutto nel Sud del mondo e nel cosiddetto blocco dei paesi socialisti. La controffensiva neoliberista fu guidata dai governi di destra degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (Reagan e Thatcher) insieme alle due principali organizzazioni finanziarie intergovernative – il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale – che congiuntamente diedero vita e attuarono quell’insieme di politiche che avrebbe preso il nome di «Washington Consensus». Lo slogan di questa comune linea politica fu coniato da Margaret Thatcher: TINA, cioè «there is no alternative », ed era destinato a comunicare a tutti i governi la necessità di allinearsi alle indicazioni politiche per non essere colpiti da un rallentamento della crescita o dal vedersi negata l’assistenza internazionale nell’evenienza di dover affrontare una qualsiasi difficoltà.

Il Washington Consensus prospettava a tutti una ripresa della crescita economica e un’uscita dalla stagnazione globale degli utili. Dal punto di vista politico i fautori della globalizzazione neoliberista ottennero un notevole successo. Uno dopo l’altro i governi – nel Sud del mondo, nel blocco socialista, nei più forti paesi occidentali – privatizzarono le industrie, aprirono le frontiere agli scambi e alle transazioni finanziarie, operarono tagli allo Stato sociale. Le idee socialiste e perfino quelle keynesiane finirono per essere ampiamente screditate nell’opinione pubblica e abbandonate dalle élite politiche. La conseguenza più vistosa fu il crollo dei regimi comunisti nell’Europa centrorientale e nell’ex Unione Sovietica, oltre all’adozione di una politica favorevole al mercato in una Cina ancora nominalmente socialista.

C’era un unico inconveniente in quel grande successo politico: a esso non corrispondeva un pa- ri effetto in economia. Gli utili delle imprese continuavano a ristagnare in tutto il mondo. Il generale andamento di crescita delle borse non si basava tanto sui profitti della produzione, ma in gran parte su manipolazioni e speculazioni finanziarie. La distribuzione dei redditi a livello mondiale e all’interno dei singoli paesi divenne molto squilibrata: a un massiccio aumento dei redditi del 10% più ricco, e in particolare dell’1% della popolazione mondiale, corrispose un calo dei redditi reali per gran parte del resto della popolazione.

Le delusioni rispetto ai fasti di un “mercato” senza restrizioni cominciarono a emergere verso la metà degli anni Novanta. Lo si comprese da vari segnali: il ritorno al potere in molti paesi di governi più attenti allo Stato sociale, la ripresa di pressioni per politiche protezionistiche soprattutto da parte dei sindacati e delle associazioni di agricoltori, la crescita in tutto il mondo di un movimento per una “diversa” globalizzazione, con la parola d’ordine «un altro mondo è possibile».

Questa reazione politica ha avuto uno sviluppo lento ma stabile. Nel frattempo, però, i fautori di una globalizzazione neoliberista non si sono limitati a insistere, ma hanno addirittura aumentato la loro pressione con l’avvento del regime di George W. Bush, il cui governo ha spinto contemporaneamente verso una distribuzione ancora più squilibrata dei redditi (attraverso forti tagli delle imposte ai più ricchi) e verso una politica estera ispirata all’unilateralismo e a un militarismo machista (l’invasione dell’Iraq), finanziando tale politica con una gigantesca espansione dell’indebitamento mediante la vendita di buoni del tesoro degli Stati Uniti a chi controlla le fonti di energia mondiali e alle imprese di produzione a basso costo.

Sulla carta le cose sembravano andare nel verso giusto, se ci si limitava a guardare le cifre dei mercati borsistici. Ma si trattava di una enorme bolla creditizia, destinata irrimediabilmente a esplodere, come infatti è ora avvenuto. L’invasione dell’Iraq (sommata agli interventi in Afghanistan e in Pakistan) si sta dimostrando un colossale fiasco militare e politico. È stata messa in dubbio la solidità economica degli Stati Uniti e questo ha provocato un crollo deciso del valore del dollaro. E tutte le borse del mondo tremano davanti allo scoppio della bolla speculativa. Quali sono, allora, le conclusioni politiche che ne stanno traendo i governi e le popolazioni? Sembra che se ne prospettino quattro. La prima è la fine del ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, fatto che rende impossibile, sia per il governo degli Stati Uniti sia per i consumatori americani, la prosecuzione di una politica di superindebitamento. La seconda è un ritorno a una forte politica protezionistica, sia nel Nord sia nel Sud del mondo. La terza è una ripresa dell’acquisizione di imprese fallite da parte dello Stato e l’attuazione di misure keynesiane. L’ultima è un ritorno a politiche di welfare redistributive.

C’è un’oscillazione all’indietro anche in politica. La globalizzazione neoliberista sarà vista, tra una decina d’anni, come una fase ciclica nella storia dell’economia capitalista mondiale. Il vero interrogativo non è se tale fase sia definitivamente chiusa, ma se il ciclo che segue sarà in grado, come lo era stato in passato, di riportare in una condizione di relativo equilibrio il sistema mondiale. O forse ormai il danno fatto è irrimediabile? Siamo forse precipitati in uno stato di violenta confusione dell’economia globale e quindi del sistema mondiale nel suo insieme?1

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