Precariato e flessibilità in Italia: ragioni e soluzioni

Written by Paolo Nerozzi Thursday, 09 October 2008 18:57 Print
Un PD che scelga di coltivare fino in fondo l’ambi­zione di un soggetto a vocazione maggioritaria do­vrà necessariamente declinare questa sua ambizio­ne in un incontro fecondo con il mondo del lavoro, dovrà entrare davvero in sintonia con il malessere profondo che lo attraversa e farsi portatore di un’idea unificante, che comprenda la difesa delle garanzie acquisite e la loro estensione, il recupero del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni e, più in generale, una rinnovata strategia per lo svi­luppo dell’Italia.

La situazione italiana

Le inquietudini che attraversano la società italiana – la paura, il senso di incertezza, la diffidenza verso il futuro – sono le stesse che si riscontrano nell’ampio e composito mondo del lavoro. Il primo limite della politica nel suo sforzo di rappresentare efficacemente quest’universo, fatto di differenze geografiche, generazionali e professionali, è dato innanzitutto dalla difficoltà di comprenderlo appieno. Si tratta di un magma multiforme in continua mutazione, determinato sia dal complesso delle riforme giuslavoristiche elaborate dagli inizi degli anni Novanta, sia dalle nuove dinamiche imprenditoriali prodotte dalle profonde innovazioni tecnologiche e dai processi di internazionalizzazione delle imprese. Il risultato è una tale molteplicità di fattispecie occupazionali che gli stessi studiosi faticano a trovare un accordo nel definire le differenze tra lavoro flessibile, precario e tradizionale, nonché nel rappresentarlo numericamente. Se, per comodità di analisi, ci si limita a scomporre le forme di occupazione in due grandi fattispecie – forzando vistosamente la sovrapposizione di generi occupazionali molto differenti tra loro – quella dei lavoratori stabili e quella dei precari, possiamo stimare che tra i 5 e i 6 milioni i lavoratori italiani operano in maniera flessibile all’interno del mercato del lavoro. A questa cifra, già di per sé imponente, si dovrebbe sommare – e qui le stime risultano ancora più a rischio – quella dell’universo del lavoro sommerso, sia esso integralmente o parzialmente irregolare. Quest’ultimo conta, presumibilmente, alcuni milioni di addetti. A questo insieme di lavoratori deboli potremmo ancora sommare quella parte di lavoro tradizionale che, per la sua debolezza contrattuale, rischia di subire gli stessi effetti del lavoro precario. Né i sindacati né la politica riescono a rappresentarli adeguatamente: ci si riferisce a quei 3 milioni di lavoratori addetti alle cooperative sociali, alle ditte di pulizia, ai servizi alla persona, alla sanità privata ecc. Si tratta di un insieme di lavoratori, composto in gran parte da donne, che spesso viene definito di “invisibili”, per i quali il contratto collettivo nazionale di primo livello troppo spesso viene rinnovato addirittura dopo anni dalla scadenza e in condizioni di grave debolezza negoziale. Per queste categorie, che difficilmente riescono a contrattare il secondo livello, il contratto nazionale dovrebbe prevedere almeno l’obiettivo di un salario minimo garantito, nonché un sistema di rivalutazione automatico capace di sostenere i redditi, in particolare nei periodi ad alta incidenza inflativa: un meccanismo sulla linea già elaborata da Ezio Tarantelli. Il salario minimo comunque andrebbe istituito così come esiste in altri paesi europei.

A queste differenze di carattere contrattuale e di modalità di prestazione d’opera non possono non aggiungersi le ulteriori diversificazioni dettate dalla condizione scolastica, dalla diversa provenienza territoriale, dal dato anagrafico e persino dalle diverse modalità di accesso e di permanenza nel mercato del lavoro, dovute alla differenza di genere.

Sono quasi cinquanta le diverse tipologie contrattuali che determinano l’universo del lavoro flessibile e/o precario: innanzitutto i contratti a tempo determinato, i contratti a progetto, il lavoro a chiamata, i contratti di apprendistato, la formazione lavoro, stage, tirocini e simili, nonché il mondo delle partite IVA a committente unico. Per individuare una sostanziale distinzione tra lavoro flessibile e precario – distinzione che troppo spesso non è stata approfondita, sia per difficoltà di interpretazione sia per pregiudizio ideologico – sarebbe necessario assumere alcuni parametri certi tanto di carattere economico quanto fattuali: la chiara dipendenza economica, la monocommittenza, la diretta incidenza all’interno del ciclo produttivo. Tali parametri, se possono essere utili nel definire una fattispecie, risultano comunque estremamente inadeguati nel definire un mondo del lavoro in continua trasformazione, dove la distinzione tra condizione flessibile o precaria è dettata presumibilmente dall’approccio intimo con cui ogni singolo lavoratore si rappresenta verso quest’universo. Le sue aspettative, la sua capacità professionale, la sua forza contrattuale possono determinare con maggiore precisione il confine tra condizione di flessibilità e di precariato.

Le ragioni della flessibilità

Dal 1996 ad oggi l’occupazione in Italia è aumentata di circa 2,3 milioni di unità, un dato che viene spesso enfatizzato dai difensori delle nuove fattispecie di flessibilità, tanto in entrata quanto in uscita dal mondo del lavoro. In senso inverso questo dato viene utilizzato da coloro che considerano queste nuove metodologie contrattuali una semplice forma di risparmio, in termini sia economici che di garanzie, per le imprese: le aziende avrebbero infatti impiegato lo stesso numero di addetti – in forma tradizionale – per rispondere alle loro esigenze produt- tive. Un dato numerico incontestabile è rappresentato dalla regolarizzazione e dal censimento nelle statistiche dell’occupazione di circa 700 mila immigrati con la sanatoria del 2002. Lavoratori passati dal mondo del lavoro sommerso all’occupazione regolare che hanno inciso per circa un terzo nella crescita dell’occupazione italiana.

Tra le diverse interpretazioni relative alla crescita dell’occupazione, vi è quella di chi riconduce tale crescita direttamente alle nuove norme legislative introdotte dapprima con il pacchetto Treu e in seguito con la legge Biagi, senza le quali chi oggi ha un contratto di lavoro precario sarebbe disoccupato. C’è chi, viceversa, ritiene che se esiste un contratto esiste anche una domanda di lavoro da parte dell’impresa. Probabilmente si è in presenza, in entrambi i casi, di forzature sia di carattere squisitamente politico sia economico.

È senza dubbio vero che in parte le imprese utilizzano i contratti saltuari, a tempo determinato, a progetto, semplicemente per abbattere i costi di carattere economico e di vincolo normativo. Ma è altrettanto plausibile che una maggiore flessibilità in entrata consente all’impresa di scommettere con minore rischio sulle performance di produzione, rispetto a quanto accada in un regime di forte rigidità contrattuale. È quindi, la flessibilità in entrata, il luogo su cui intervenire legislativamente sia per accrescere le aspettative occupazionali, sia per accompagnare le dinamiche della crescita industriale.

Le proposte di “contratto unico”

Uno studio dell’IRES CGIL del 2005 evidenziava che circa il 70% dei cosiddetti co.co.co. dopo un anno di impiego a progetto si trovava ancora nella stessa condizione lavorativa; solamente il 7% passava ad un lavoro a tempo indeterminato, il 6% a tempo determinato e il 64% era ancora occupato nella stessa azienda. Sta quindi al legislatore, e con esso al complesso dei soggetti – sindacalisti, imprenditori, giuslavoristi ed economisti – che partecipano all’elaborazione delle nuove politiche del lavoro, tracciare un percorso che, seppur gradualmente, indichi una prospettiva di stabilizzazione a milioni di italiani che vivono quotidianamente una totale assenza di costruzione stabile della propria esistenza, sia essa sociale, lavorativa o affettiva. Milioni di uomini e di donne, in gran parte giovani che, schiacciati dal peso della precarietà, sono privati degli strumenti utili a scommettere sul loro futuro. Ragazzi che vivono il peso della insostenibilità della precarietà a vita. Con loro l’intero paese rischia di guardare più al passato che al futuro, relegando l’Italia ad una progressiva marginalizzazione dai luoghi reali di produzione e di crescita economica e sociale.

È indispensabile, quindi, per il PD promuovere un ampio dibattito politico che, a partire dalle varie proposte elaborate da importanti studiosi italiani sul tema del cosiddetto “contratto unico”, porti all’indicazione di un nuovo genere contrattuale, in grado di salvaguardare sia le esigenze reali di flessibilità nei processi di produzione sia le garanzie dei lavoratori sin qui acquisite, e di ricollocare la miriade di forme precarie di oc- cupazione in un nuovo e unitario contratto di lavoro. Dovrebbe svilupparsi una nuova modalità di accesso al mercato del lavoro che, pur mantenendo margini di flessibilità in entrata, sappia progressivamente ricollocare all’interno dell’alveo delle garanzie acquisite anche i nuovi lavoratori. La questione, infatti, è discutere e individuare il punto di equilibrio tra tutele individuali, garanzie collettive e libertà d’impresa. Le varie proposte che animano il dibattito politico-sindacale – il progetto di Tito Boeri e Pietro Garibaldi e le indicazioni di Marco Leopardi e Massimo Pallini; gli elaborati di Pietro Ichino sui nuovi modelli di flexicurity; i contributi di Cesare Damiano sul nuovo “statuto dei lavori” che riprendono alcune delle ultime elaborazioni di Bruno Trentin; la proposta di legge di Tiziano Treu sul lavoro stabile e sicuro già presentata in campagna elettorale – possono rappresentare la solida base politico-culturale di un progetto riformatore. Progetto che può essere realizzato a partire dall’elaborazione originale del PD e interloquendo con i soggetti sociali maggiormente rappresentativi, e in particolare con quel pezzo di società italiana priva di ogni garanzia sindacale e contrattuale, che oggi è difficilmente intercettabile dalla politica, ed è ben poco interessata a piccole misure parziali che non incidano radicalmente sulla loro condizione reale.

Contestualmente sarà necessario aprire una riflessione sulla riforma dell’accesso alle professioni. È indispensabile pensare a questo tema, soprattutto considerata la riforma del sistema universitario che se da una parte ha contribuito all’aumento del numero dei laureati, dall’altra, e sempre più spesso, sta dando ai giovani italiani un titolo di studio privo di reale spendibilità. Sarà opportuno proseguire sulla via indicata dalla riflessione e dalle proposte elaborate da Pierluigi Bersani nella scorsa legislatura per fare in modo che anche in Italia ci sia un accesso alle professioni libero e in linea con gli altri paesi europei. Questo tema è sicuramente centrale nella lotta ai “conservatorismi” che ha animato l’azione politica del Partito Democratico. Non è questo né il luogo né il tempo di politiche emendative, è sempre più altresì indispensabile promuovere un progetto politico unitario che sappia parlare con l’insieme del mondo del lavoro e che sia in pari modo accettabile da parte dell’impresa.

Ammortizzatori sociali

È necessario che all’elaborazione di un nuovo complesso normativo – che riconduca a unicità i nuovi contratti di lavoro subordinato – sia affiancata una moderna rete di garanzie sociali. Il dibattito sulla riforma degli ammortizzatori sociali, ormai ventennale, sconta un limite non sempre affrontato con corretta serietà intellettuale: il costo di questo strumento.

Il tema della sostenibilità economica di un efficace complesso di azioni volte all’estensione di una rete di protezione che accompagni i lavoratori nei periodi di non attività – coniugando sostegno al reddito e formazione continua sul modello delle esperienze più mature del Nord Europa – non è risolvibile con enuncia zioni propagandistiche. Infatti in vent’anni non è stato sostanzialmente risolto.

L’Italia investe per gli ammortizzatori sociali circa lo 0,6% del proprio PIL, a fronte di circa più del doppio di media dei paesi europei con un’economia assimilabile alla nostra e al 2,7% erogato dalla Danimarca, paese di riferimento per le politiche di flexicurity. Ponendosi l’obiettivo di un adeguato incremento delle risorse italiane destinate alle tutele sociali e scontando l’onere dato dall’ammontare del nostro debito pubblico, sarebbe interessante approfondire le proposte di ripartizione del costo economico tra la contribuzione collettiva e l’impegno economico dovuto dalle aziende. Le imprese che hanno beneficiato in questi anni di modalità lavorative estremamente convenienti dovranno contribuire alla definizione di una rete sociale realmente solidaristica. A tale proposito risultano molto convincenti le indicazioni di Pietro Ichino, laddove assegna alle imprese che maggiormente ricorrono alle forme di lavoro flessibile il maggior onere contributivo. Gli ammortizzatori sociali dovrebbero innanzitutto sostenere quei lavoratori ultracinquantenni che, espulsi dai processi produttivi a causa delle riconversioni industriali, rischiano di trovarsi fuori dal mondo del lavoro, privi di sostegno al reddito e di una adeguata formazione professionale. Lavoratori che in mancanza di un adeguato supporto difficilmente incontreranno una nuova occasione lavorativa.

A fronte di una situazione così grave e complessa del mondo del lavoro italiano, il PD dovrebbe lanciare nei quartieri e nei luoghi di lavoro una forte azione politica che, a partire da un’efficace e credibile opposizione alle iniziative dell’attuale maggioranza – che sostanzialmente favorisce il proliferare di strumenti di precarietà nel mondo del lavoro – sia capace di indicare un processo riformatore in grado di riaprire un dialogo con l’insieme dei lavoratori. Sarà anche necessaria una nuova elaborazione dello statuto dei lavoratori che rinnovi ed estenda i diritti – a partire dal tema del sapere, quale nuovo paradigma per l’accesso e la tutela nel mondo del lavoro – e intervenga sulla stessa organizzazione del lavoro. Tema già affrontato da Bruno Trentin negli ultimi anni della sua vita. Ci sono momenti della politica per i quali vale lo scritto di Vittorio Foa nella prefazione del suo libro “Il cavallo e la torre”: «Nella politica come in generale nella vita: il modello della torre, che procede in linea retta, come confronto e scontro su un terreno imposto a cui non si può sfuggire, e quello del cavallo, che salta lateralmente, come ricerca di terreni e livelli diversi. La mossa del cavallo è molto più facile sulla scacchiera che nell’azione pratica. Ma si può tentare».