Governare (bene) l'immigrazione per sconfiggere il razzismo

Written by Giovanna Zincone Monday, 02 September 2002 02:00 Print

E' bene partire dalla constatazione empirica che non esistono politiche di immigrazione capaci di risolvere le tensioni e i problemi che il fenomeno inevitabilmente comporta. Ci sono però provvedimenti e comportamenti pubblici destinati ad aggravare le inevitabili difficoltà ed altri che, al contrario, possono attenuarle. Parto dalla pessimistica osservazione iniziale per cercare di capire poi quali errori sono stati fatti e si continuano a fare e quali si potrebbero evitare. A sua volta l’osservazione pessimistica si può scomporre nella rilevazione di due, almeno parziali, fallimenti obbligati che dovremmo almeno contenere: il mancato controllo delle frontiere e la mancata integrazione. Primo parziale fallimento: nessun paese si è dimostrato capace di far entrare soltanto il numero di immigrati stabilito secondo le proprie decisioni pubbliche.

 

E' bene partire dalla constatazione empirica che non esistono politiche di immigrazione capaci di risolvere le tensioni e i problemi che il fenomeno inevitabilmente comporta. Ci sono però provvedimenti e comportamenti pubblici destinati ad aggravare le inevitabili difficoltà ed altri che, al contrario, possono attenuarle.

Parto dalla pessimistica osservazione iniziale per cercare di capire poi quali errori sono stati fatti e si continuano a fare e quali si potrebbero evitare. A sua volta l’osservazione pessimistica si può scomporre nella rilevazione di due, almeno parziali, fallimenti obbligati che dovremmo almeno contenere: il mancato controllo delle frontiere e la mancata integrazione. Primo parziale fallimento: nessun paese si è dimostrato capace di far entrare soltanto il numero di immigrati stabilito secondo le proprie decisioni pubbliche. I paesi europei che hanno adottato il blocco degli ingressi, dopo la crisi economica e la disoccupazione seguite allo shock petrolifero a metà degli anni Settanta, hanno dovuto accettare nuove presenze in seguito a ricongiungimenti familiari e a richieste di asilo più o meno autentiche. Tutti i paesi di immigrazione hanno dovuto convivere con buone dosi di irregolarità, nonostante abbiano cercato di contrastarla. Pattugliare i confini caldi a rischio di clandestini, come quello tra gli Stati Uniti e il Messico, ha avuto sì un certo successo, però localizzato. Infatti, il traffico generale non è cessato, si è semplicemente spostato in tratti di frontiera meno protetti.1 La Germania ha controllato con mezzi sofisticati i suoi confini ad Est, ma questo non l’ha preservata da un buon flusso di irregolari. Gli immigrati «fuori programma» non entrano solo clandestinamente, ma passano con visti turistici, non attraversano solo i confini terrestri, ma arrivano negli aeroporti. I loro documenti possono essere perfettamente in regola, anche se sono stati ottenuti in modo improprio, magari attraverso un’agenzia di viaggi che li ha «acquistati» da qualche impiegato di ambasciata compiacente.

Molti sostengono che la differenza tra emigrazione italiana all’estero e immigrazione straniera in Italia consiste nel fatto che i bravi lavoratori italiani emigravano in forme regolari. Non è così. Enrico Pugliese ci ha suggerito di ricordare lo straordinario e sospetto numero di visti turistici concessi dalla Germania a «visitatori» italiani negli anni della ricostruzione. Una certa quota di immigrazione irregolare è fisiologica. Persino il trasporto clandestino ha anche una dimensione «normale»: non è sempre rischioso e traumatico per chi ne è oggetto, né è sempre terribilmente lucroso per chi lo compie.2 In molti paesi di emigrazione i «contrabbandieri» di persone sono percepiti come erogatori di un servizio utile e sono quindi ampiamente legittimati dall’opinione pubblica, un atteggiamento che contribuisce a rendere difficile perseguire questo crimine. Lo studioso sino-americano Ko-Lin Chin raccontava in una sessione plenaria della V conferenza internazionale del gruppo «Metropolis» (mega-rete di decisori ed esperti in materia di immigrazione) come la prima preoccupazione di un emigrato clandestino arrestato fosse quella di sollecitare la famiglia a mettere da parte i soldi per pagare un altro tentativo.

Se una certa dose di clandestinità e di permanenza a permesso scaduto sono inevitabili, il caso italiano presenta però una situazione di irregolarità eccessiva, che emerge ogni volta che si introducono sanatorie. Si tratta quindi di un fenomeno che va contenuto, obiettivo non semplice da raggiungere. È difficile trovare strumenti dissuasivi efficaci anche per le tratte e i mezzi di trasporto più costosi e rischiosi, finché trasportare ed essere trasportati costituisce l’unica speranza di sopravvivere e di salvare i propri cari. La precedenza data ai figli nella via di scampo spiega perché tra i profughi si trovino anche bambini soli. Ma passare i confini di straforo può essere il modo meno incerto per emigrare anche per ragioni economiche, quando le vie di accesso legali sono scarse o nulle. Le ricerche effettuate sul campo, a contatto con gli immigrati, indicano che quelli italiani, dal punto di vista burocratico, non sono considerati confini particolarmente porosi, tutt’altro. Tanto è vero che, per arrivare in Italia, molti raccontano di aver raggiunto l’Austria come primo luogo di accesso a quella che è diventata l’area europea di libera circolazione in seguito al trattato di Schengen.3 A parte i perseguitati per motivi politici o etnici, che vendono tutto per salvarsi e, soprattutto, per salvare i propri figli, gli altri quelli che partono con il proposito di guadagnare qualcosa, sono spesso sufficientemente «ricchi» almeno come famiglia, per potersi permettere un viaggio caro o sono abbastanza avventurosi da essere disposti ad indebitarsi. In ogni caso, contano di potere ricompensare la famiglia o restituire il debito contratto lavorando, altrimenti non partirebbero. La mancanza di un permesso di lavoro valido consente di guadagnare solo nell’economia sommersa.

Come fa notare da tempo Emilio Reyneri, è la fondata speranza di trovare un’occupazione in nero e quindi di guadagnare anche senza un permesso di soggiorno che rende razionale l’avventura dell’ingresso clandestino o della permanenza irregolare. Secondo gli ultimi controlli dell’ispettorato del lavoro il 28,6% degli immigrati lavorerebbe in nero, il 18,6% sarebbero irregolari o clandestini. Perciò le azioni repressive sono necessarie, ma insufficienti se non investono anche il mercato del lavoro. In questo ambito il centrodestra sta proseguendo la strategia di combinare incentivi e repressione già avviata dal centrosinistra. Ma lo fa con troppi ripensamenti. Il decreto legge che consente la regolarizzazione dei lavoratori impiegati nelle imprese, include anche la quarta proroga per la presentazione della domanda di emersione. Ma il governo priva gli imprenditori che dichiarano dipendenti immigrati delle agevolazioni fiscali e contributive previste per i dipendenti italiani. Nonostante l’avviso comune siglato da sindacati e imprenditori il 24 luglio suggerisse di includerli. Per ora, in generale, l’operazione emersione non ha avuto il successo sperato (fino al 9 luglio, l’INPS aveva registrato solo 302 nuove posizioni assicurative aperte), e potrebbe non averne neanche in futuro. Il sommerso in Italia ha anche un carattere strutturale: l’impossibilità per una pletora di piccole imprese di reggere i costi dell’economia formale. Ma è bene provarci ed è bene sperare in buoni risultati. Però, se si vuole che i risultati includano anche i lavoratori stranieri, rappresenta un errore escludere i loro datori di lavoro dagli incentivi.

Un altro strumento «complementare» contro l’immigrazione clandestina riguarda le stesse misure repressive specificamente rivolte a questo scopo: occorre coinvolgere nell’operazione di repressione anche i paesi di provenienza o di transito, che devono essere convinti a effettuare controlli e a imporre regole alla partenza. Il fatto è che questi paesi non hanno alcuna convenienza immediata a farlo. Infatti, le partenze costituiscono un affare immediato per chi lo gestisce, un affare che riverserà i propri frutti anche sull’economia del paese: le presenze di connazionali all’estero possono alleggerire i tassi di disoccupazione e far sperare in rimesse. Per gli Stati di emigrazione persino la partenza di personaggi sospetti può apparire come un vantaggio, anche per decisori pubblici non collusi con le organizzazioni malavitose. Infatti, gli operatori criminali manderanno denaro a casa e, soprattutto, si toglieranno di torno, riducendo i costi di repressione del paese di origine. È vero che l’emigrazione può produrre per i paesi di provenienza anche svantaggi immediati, se a voler abbandonare la madre patria sono lavoratori specializzati: questi ultimi hanno normalmente meno bisogno di utilizzare vie traverse perché trovano spesso a disposizione canali privilegiati.4 Va osservato però che anche lavoratori considerati comuni per gli standard dei paesi di accoglienza non lo sono per quelli di partenza, dove a causa del differente grado di istruzione media sono considerati pregiati. Quindi esistono lavoratori relativamente competenti che partono seguendo anche canali illegali, e queste defezioni possono produrre svantaggi nel paese di origine.

Tuttavia, non sempre lo svantaggio del «drenaggio di cervelli» viene considerato capace di annullare i vantaggi delle partenze. Le emigrazioni illegali, qualunque sia il livello dei migranti, procurano vantaggi selettivi certi (alle famiglie, ai funzionari corrotti, ai trasportatori), mentre la fuga di capacità produce danni per l’intera azienda-paese, e costituisce quindi uno svantaggio collettivo. Inoltre è uno svantaggio incerto: potrebbe infatti tramutarsi in beneficio se fosse compensato dalla costruzione di reti di comunicazione e circolazione attraverso le quali le abilità e il sapere dei più avanzati paesi di immigrazione fossero in parte «travasati» nei meno avanzati paesi di emigrazione proprio per merito dei transfughi. Anche una certa quantità di esodo di cervelli e di specializzazioni può risultare vantaggioso, nel caso in cui nuove skills «di ritorno» e capitali derivanti dalle rimesse siano investiti in modo produttivo. Questo ovviamente non si verifica sempre: per esempio le rimesse possono essere usate per comprare beni di importazione voluttuari. I limiti imposti all’emigrazione per evitare non solo dannose fughe di cervelli, ma eccessivi spopolamenti si possono considerare, nell’insieme, una sorta di bene pubblico, in quanto il cumulo di benefici individuali rischia di trasformarsi in danno collettivo. È il caso ad esempio dell’Albania, dove interi villaggi e quartieri cittadini si sono svuotati, dove l’emigrazione ha coinvolto una porzione così grande della popolazione da presentarsi come lo sfaldamento di una nazione.5

Nell’insieme, però, i decisori pubblici dei paesi di provenienza colgono più vantaggi che svantaggi nell’emigrazione e perciò agiscono spesso come alleati più o meno palesi dell’ emigrazione anche clandestina. Lo fanno anche allo scopo umanitario di garantire opportunità di sopravvivenza e integrità fisica per i propri cittadini. Ad esempio, il Messico ha installato dei fari per evitare che i suoi clandestini si perdessero e perissero nel deserto. Del resto, gli Stati Uniti hanno anch’essi aumentato i pattugliamenti, allo scopo, tra gli altri, di proteggere i clandestini dalle polizie private organizzate dai proprietari dei ranch, spesso insofferenti nei confronti dei danneggiamenti che i clandestini, attraversandole, provocano alle loro proprietà.

Per governare l’immigrazione clandestina sono necessari accordi bilaterali con i paesi di provenienza e di transito tali da compensare la perdita dei prevalenti benefici immediati che derivano dello scarso controllo in uscita. Il centrodestra si è dimostrato poco attivo nel promuovere accordi di riammissione, anche se ne ha firmato uno importante con la Turchia. Ma il rallentamento si deve anche allo spostamento delle trattative ad un livello più alto, quello dell’Unione europea. È importante che si prosegua con questa strategia, nella cui promozione aveva giocato un ruolo determinante l’Italia durante i governi di centrosinistra. Berlusconi, come ministro degli Esteri, ha opportunamente proposto che gli accordi di riammissione fossero siglati a livello di Unione, però evidentemente ignorava il fatto che l’Unione aveva già imboccato questa strada: sono già avviati accordi con Pakistan, Sri Lanka, Marocco, Russia, Ucraina, Hong Kong e Macao. Questi accordi possono prevedere come vorrebbe la nuova linea italiana (disposizioni finali articolo 1 comma 2, 3) anche sanzioni in termini di cooperazione allo sviluppo? La proposta di Aznar e Berlusconi di ridurre aiuti e supporti ai paesi che non cooperassero a contrastare l’emigrazione illegale, discussa al vertice dei capi di Stato e di governo di Siviglia, si è arenata contro l’opposizione svedese e francese. Questi due Stati temevano che eventuali sanzioni, indebolendo ancora di più le economie di partenza, finissero per produrre maggiori esodi e peggiorare così la situazione.

Ma, più in generale, questi governi preferiscono seguire la via della persuasione piuttosto che quella della punizione. Non è detto che abbiano necessariamente ragione e, comunque, Stati dell’Unione governati da maggioranze socialdemocratiche e laburiste come la Germania e la Gran Bretagna, non si sono dichiarati ostili, almeno inizialmente, alla proposta di sanzioni. Quanto all’Italia, dobbiamo osservare che già durante i governi di centrosinistra si erano non solo riservate quote per i paesi di origine che collaboravano nel contrasto dell’emigrazione clandestina, ma si erano anche penalizzati i paesi che collaboravano insufficientemente: così l’ultimo decreto sui flussi del governo Amato aveva ridotto la quota riservata ai marocchini. La nuova legge Bossi-Fini si limita a formalizzare questa strategia (art. 21 comma 1).

Fin qui mi pare che siamo nell’ambito delle misure più e meno opportune, non – come alcune personalità di sinistra sostengono – nel baratro che divide civiltà e barbarie. Una solida barriera all’ingresso clandestino o alla permanenza irregolare era ed è voluta anche dal centrosinistra. Quella barriera si costruisce con una combinazione di tasselli. Tra questi conta ovviamente anche il controllo delle frontiere in arrivo e in partenza. Si tratta di un tassello rinforzato soprattutto dal governo Amato: accordi di polizia con paesi dell’Unione che condividono le stesse frontiere a rischio, progetto di polizia di frontiera comune,6 cooperazione di polizia con paesi di emigrazione, in particolare con l’Albania, sequestro con divieto di alienazione dei mezzi di trasporto dei clandestini, una legge votata dal parlamento albanese (su pressione del governo italiano) che prevede il sequestro e la distruzione di mezzi sospetti, numerosi accordi di riammissione a livello nazionale e impostazione di accordi a livello europeo, di cui abbiamo già detto.

In tema di contrasto dell’immigrazione irregolare la riforma Bossi-Fini in parte prosegue l’opera iniziata dal centrosinistra,7 ma introduce alcune evidenti novità che è bene non sopravvalutare, né stroncare a priori: non vanno considerate una panacea contro l’immigrazione irregolare (come sostiene una parte della destra), né una vergognosa lesione dei diritti civili degli immigrati (come sostiene una parte della sinistra). Può darsi, invece, che in qualche misura si rivelino inutili, e che per il resto servano a qualcosa, o che, infine, possano provocare sprechi di denaro pubblico e altri effetti dannosi. Provo a giustificare questo giudizio disincantato attraverso un rapido esame della parte repressiva della riforma. Per la prima volta in Italia, la legge Turco-Napolitano (6 marzo 1998, n. 40) aveva introdotto la possibilità di fermare gli immigrati clandestini e irregolari in attesa di identificazione; lo si poteva fare per un massimo di trenta giorni, il termine viene ora alzato a sessanta. Normalmente le identificazioni avvengono nei primi giorni, è possibile quindi che il prolungamento produca solo l’effetto perverso di un aumento di spese per ospitare irregolari e clandestini, senza maggiori risultati. È importante, invece, costruire un numero sufficiente di centri, un’operazione che il governo ulivista non aveva potuto portare a termine, perché i centri avevano subito l’attacco a tenaglia della proposta di referendum abrogativo della legge 40 da parte della Lega e della sollevazione del rilievo di incostituzionalità da parte di magistrati ipergarantisti. La Bossi-Fini stanzia una cifra consistente allo scopo (altre disposizioni art.13 comma 2: 12,39 milioni per il 2002, 24, 79 per il 2003 e il 2004). Anche in questo caso, il centrosinistra all’opposizione non può dispiacersi del fatto che il centrodestra si limiti proseguire la sua opera. Lo stesso vale per l’obbligo di distruzione dei mezzi di trasporto sequestrati e non destinati a scopi precisi (art.12 comma 8bis e sgg.) già introdotto con il decreto del 4 aprile 2002, anche con la Turco-Napolitano si poteva fare e comunque si doveva evitare che i mezzi rientrassero in circolazione. Sarebbe utile semmai che il centrosinistra all’opposizione sottolineasse come le più convincenti misure di contrasto dell’immigrazione clandestina, proposte oggi come novità dal centrodestra, siano state pensate, introdotte e promosse con forza dai propri governi. Le novità vere però ci sono. Tuttavia non sono tutte inopportune, ad esempio la possibilità di inviare, di concerto con il ministero degli Esteri, personale di polizia specializzato presso i consolati e le rappresentanze diplomatiche (altre disposizioni art.36) sembra una buona cosa. Lo stesso vale per l’obbligo imposto al governo di presentare al comitato parlamentare Schengen un rapporto annuale (altre disposizioni art. 37 comma 1).

Veniamo ai tre punti più caldi, anche in questo caso ci muoviamo – secondo me – più sul terreno della maggiore o minore opportunità che sul crinale tra civiltà e barbarie, almeno se ci limitiamo a valutare le nuove norme. È piuttosto dietro le quinte di queste misure che si sentono toni feroci, torve minacce. Il vero pericolo è sullo sfondo. Il reato di immigrazione clandestina è previsto anche da ordinamenti giuridici che non possiamo considerare antidemocratici: Francia, Gran Bretagna, Regno Unito, Germania, Austria. In Italia, inoltre, a differenza che nei paesi citati, il reato si configura solo dopo la seconda volta che l’immigrato venga trovato privo di un permesso di soggiorno valido (art.14 comma 5ter), con una pena che va dai sei mesi a un anno, mentre la terza volta sale da uno a quattro anni (comma 5quater). Si può osservare che si tratta di pene sproporzionate alla gravità dell’atto e che una misura repressiva così severa e costosa (si prevede il processo con rito abbreviato) contrasta con una generale tendenza a depenalizzare. E soprattutto tale severità contrasta con la straordinaria indulgenza che il governo di centrodestra sta mostrando nel riformare, depenalizzare o sanare comportamenti illegali ad opera di benestanti, e ancor più stride dolorosamente con l’impegno che dispiega nel cercare di evitare che la giustizia prosegua il suo corso quando si tratta dei propri imputati eccellenti. Qui sì che Berlusconi e associati muovono un attacco grave alla democrazia, a questo proposito sì vale la pena di indignarsi e di mobilitarsi.

Sul reato di immigrazione clandestina è più saggio ragionare in termini di opportunità. Ricordo anche – a questo proposito – che, nella precedente legislatura, l’allora governo di centrosinistra e l’allora opposizione di centrodestra avevano quasi sfiorato un accordo sul «compromesso Giovanardi», che introduceva il reato di immigrazione clandestina, seppure solo alla terza infrazione. Credo sia stato un grave errore politico lasciare alla destra l’arma elettorale dell’impegno a punire l’immigrazione clandestina, per quanto vuoto e retorico esso fosse. Molte maggioranze di centrosinistra, pensiamo ai casi europei dell’Olanda, della Danimarca, dell’Austria, della Norvegia, pensiamo al caso dell’Australia, hanno perso le elezioni proprio per aver dato l’impressione di non volersi impegnare abbastanza a regolare l’immigrazione. Quando Bossi dice che la politica dell’immigrazione può provocare la Caporetto elettorale della sinistra non dice – una volta tanto – una cosa insensata. Vale quindi la pena di far notare agli elettori che immigrare irregolarmente è stato fino ad oggi il modo normale per entrare in Italia e che solo i governi di centrosinistra hanno offerto un’alternativa legale a questa via di ingresso.

La maggioranza degli immigrati attualmente regolari sono stati in passato clandestini o irregolari o sono parenti di chi lo è stato. Basta sommare le regolarizzazioni (circa 790.000), detrarre (questo sì) una quota di immigrati che si sono regolarizzati più volte o che sono partiti, ma aggiungere quegli irregolari che sono rientrati in patria facendosi poi chiamare in Italia dal datore di lavoro senza quindi essere inseriti e rilevati in un programma di regolarizzazione formale e metterci in più tutti i numerosi ricongiungimenti familiari avvenuti con ex irregolari. I governi di centrosinistra hanno offerto un’alternativa aprendo i flussi legali (58.000 permessi per motivi di lavoro nel 1998, 63.000 nel 1999 e 2000, 83.000 nel 2001). Ma ingressi e permanenze irregolari sono continuate e si sono estese con il centrodestra che, mentre ventilava un’ennesima sanatoria, chiudeva i flussi legali, attirando così nuovi flussi illegali. Comunque, la prossima regolarizzazione dimostrerà che anche questa volta sono entrati di straforo soprattutto lavoratori e non mascalzoni. Costituisce perciò un cospicuo errore di fatto distinguere tra «buoni» immigrati lavoratori e regolari, da una parte, e «cattivi» immigrati irregolari, clandestini pelandroni o delinquenti, dall’altra. Ma questa equiparazione, così presente nelle campagne delle destra, è stata purtroppo accettata e sventolata anche da importanti esponenti del centrosinistra.

Esiste quindi – nel bene e nel male – una qualche continuità e contiguità tra le politiche di immigrazione dei due schieramenti. Talune differenze sono più nelle dichiarazioni e nelle proposte iniziali che nei contenuti finali della «riforma della riforma». Ad esempio l’intimazione di espulsione, ora deve essere immediatamente esecutiva (art.13 comma 3) ed è sempre effettuata con accompagnamento alla frontiera, se sussistono dubbi sul fatto che lo straniero possa sottrarsi all’espulsione (art.13 comma 5), ma anche la legge Turco-Napolitano prevedeva l’ espulsione e con quella legge si sono effettuate numerose espulsioni e respingimenti. Pisanu vanta incrementi nelle espulsioni, ma è costretto ad ammettere anche forti aumenti negli ingressi illegali. In via di principio qualunque governo di qualunque colore politico dovrebbe volere espellere immediatamente chi si trova illegalmente sul proprio territorio. Solo le frange radicali della sinistra hanno negato questo principio, senza però trarne le logiche conseguenze. Se si accetta l’esistenza di frontiere, se si accetta che gli stranieri regolarmente residenti godano di servizi sociali, il diritto dello Stato ad espellere è ovvio, in alternativa si dovrebbero escludere gli stranieri dal welfare che non pagano con contributi proprio abbassare le prestazioni per tutti. Comunque chi è ostile alle espulsioni dovrebbe avere il coraggio di chiedere l’abolizione delle frontiere.

La proposta avanzata da Cipolletta, quando era direttore di Confindustria, di aprire le frontiere per evitare il contrabbando di persone aveva il merito della coerenza. Tuttavia, le frontiere aperte – come ha osservato Michael Walzer – sono un’utopia pericolosa, perché l’abolizione di filtri verso l’estero produce la necessità di costruirne di nuovi all’interno: non solo impone limiti al welfare, ma può produrre – come negli Stati Uniti – persino zone residenziali benestanti recintate e pattugliate da guardiani privati. Un’apertura indiscriminata comporta anche il rischio di una competizione al ribasso di salari e di condizioni di lavoro, comporta il rischio che le tensioni sociali tra nazionali e immigrati aumentino a dismisura. Se non si afferma palesemente il principio di apertura totale, allora si devono accettare misure repressive che scoraggino chi voglia trasgredire il divieto di passare le frontiere o di trattenersi sul territorio illegalmente. Semmai si può notare che l’espulsione degli irregolari, accettabile in via di principio, è costosa da attuare di fatto. Si tratta di una misura costosa umanamente: è duro rimandare in patria persone che già si sono inserite nel tessuto sociale del paese, bambini che parlano quasi solo la lingua del luogo, è duro comunque respingere anche alla frontiera povera gente verso paesi dove hanno poche opportunità di mantenersi dignitosamente. Si tratta di una misura costosa per i disagi che può procurare ai cittadini.

A Lampedusa l’uso di traghetti turistici per le espulsioni ha provocato rivolte tra i villeggianti lasciati a terra, tra quelli ammessi ma insofferenti ai disagi della convivenza forzosa, timorosi di essere infettati da scabbia e quant’altro. L’assessore al turismo di Agrigento ha chiesto al ministro degli Interni, al questore e al prefetto di evitare l’uso di traghetti turistici per trasportare clandestini: le persone in vacanza non devono essere esposte a visioni dolorose. L’espulsione è una misura burocraticamente e politicamente costosa perché non è sempre facile identificare il paese di origine dell’immigrato, convincere le autorità di quel paese a riprendersi gli indesiderati, è finanziariamente costosa perché i viaggi costano. Lette con questo filtro, piuttosto che gridare allo scandalo è meglio chiedersi se le nuove misure servono davvero. Lo stesso vale per un altro strumento molto contestato: l’uso della marina militare. Non mi pare probabile che – in seguito alla nuova legge – la marina militare ingaggi battaglie navali con gommoni guidati da contrabbandieri pronti a tutto, ma anche pieni di povera gente. Vedremo se aiuterà a far rientrare ai porti di origine o comunque ad allontanare i trasportatori senza gravi danni per i trasportati. Certo l’indignazione morale e la pietà non costituiscono una barriera culturale solida. La tragedia di Lampedusa e quella del gommone di Otranto non impediscono al 50% degli italiani, interrogati con riferimento alle vittime, di considerare opportuna la severità della Bossi-Fini (sondaggio CIRM marzo 2002). Una coscienza umanitaria è salda in settori importanti delle élite civili e religiose, che riescono a farsi sentire. Non è tanto la nuova legge che potrebbe provocare crescenti tragedie, quanto gli atteggiamenti deliberatamente anti-immigrati manifestati da settori della maggioranza, il clima generale che accompagna le nuove misure, il continuo flirtare di una parte della maggioranza con i peggiori istinti degli italiani.

La legge da sola non basta, specifica infatti che si potrà usare la marina militare «ferme restando le competenze istituzionali in materia di difesa nazionale» (art.12, comma 9ter) e «nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale o da accordi bilaterali o multilaterali» (art.12, 9quater). Considerazioni simili si applicano a un’altra misura considerata scandalosa: il prendere le impronte digitali. Il permesso e la carta di soggiorno devono essere costruite con sistemi anticontraffazione (art.5 comma 8), già in seguito al decreto del 30 maggio 2002, le impronte digitali devono essere prese al momento della richiesta del rilascio del permesso (art.5 comma 2bis) e del suo rinnovo (comma 4bis), e dovrebbero consentire di individuare non i clandestini veri e propri, ma almeno coloro che sono entrati con un visto magari turistico e si sono trattenuti dopo la scadenza. Anche durante il centrosinistra si potevano prendere le impronte digitali non ai soli delinquenti, ma anche ai semplici irregolari fermati, ora si devono prendere (art.6 comma 4), già a partire dal decreto del 30 maggio. Di fatto molte questure le prendevano già di routine. Limitare la rilevazione delle impronte ai soli immigrati contiene però un messaggio di sospetto troppo selettivo contro gli stranieri, una bella dose di xenofobia. Questa era la proposta iniziale, ma poi il governo in carica ha inserito l’obbligo anche per i prossimi documenti di identità degli italiani. La rottura rispetto alle passate proposte del centrosinistra si è così di nuovo molto ridimensionata. Infatti, già durante il governo di centrosinistra si era pensato di introdurre un documento unico di identità e di accesso a servizi dotato di accorgimenti anticontraffazione, quindi munito di impronte digitali o di altro sistema di riconoscimento sicuro. L’iniziativa si bloccò soprattutto per ragioni di costo.

Per valutare correttamente il carattere e l’impatto reale di questa parte delle nuove misure bisogna vedere come e quanto saranno utilizzate. Un uso di massa nei confronti degli irregolari sarebbe troppo costoso sotto i vari profili di cui abbiamo detto. Se, invece, le misure fossero applicate soprattutto a chi commette reati, allora ci sarebbe poca differenza rispetto al passato: le misure di rilevazione delle impronte, le misure detentive e di espulsione erano già a disposizione prima. Ma se davvero le misure repressive saranno indirizzate a colpire i semplici irregolari, bisogna osservare che il centrodestra ha escogitato un sistema ferreo. Si parte dalla contraffazione dei documenti (art.5 comma 8 bis), punita da uno a sei anni per il permesso e la carta di soggiorno o documenti di supporto, un meccanismo già introdotto con il decreto legge del 4 aprile 2002. La pena prevista costituisce ovviamente un deterrente sufficiente per chi non voglia rivelare la propria identità e si sia procurato un falso documento, essendo un semplice lavoratore irregolare, non per un criminale incallito che, se identificato, rischierebbe pene ben più gravi. Lo stesso vale per il reato di immigrazione clandestina di cui ho già detto. Se vogliamo valutare, nel complesso, l’impianto repressivo costruito dal centrodestra dobbiamo rilevare che si tratta per lo più di minacce urlate, di misure troppo costose se applicate a tappeto, di strumenti già disponibili se applicati in maniera selettiva (per contrastare le componenti criminali).

Perché non augurarsi però che azioni emblematiche (né selettive, né a tappeto) servano a scoraggiare qualche irregolare e a tranquillizzare qualche italiano? Perché non augurarsi che qualche misura indigesta serva? La rilevazione sistematica delle impronte digitali suscita inquietudine per chi sia sensibile al sentore acre dello Stato di polizia, quindi per qualunque individuo impregnato di cultura liberale. Tuttavia, questo può rivelarsi uno strumento necessario per ricostruire le tracce di un terrorismo islamista costituito soprattutto da stranieri. È emerso con una certa evidenza dalle indagini, dai processi, dalle statistiche sulle presenze nelle carceri che, mentre la criminalità comune si trova prevalentemente in stato di irregolarità sotto il profilo del soggiorno, quella politica cerca più spesso di agire «come un pesce nell’acqua», e tiene quindi comportamenti apparentemente legali, utilizza semmai documenti falsi se proprio non riesce a procurarsene di autentici. I turisti che filmavano il duomo di Bologna con intenzioni poco rassicuranti erano tutti bravi lavoratori in regola. Il nostro paese è risultato essere un importante snodo del terrorismo internazionale, che non si limita più a progettare azioni fuori dal territorio italiano da quando i nostri governi hanno perso il poco nobile vantaggio che derivava loro da un atteggiamento defilato e ambiguo nei confronti di guerriglie e attentati ad opera dell’islamismo radicale.

Le interessanti inchieste di Magdi Allam su «La Repubblica» offrono un quadro poco rasserenante della situazione. Documenti che impediscono la contraffazione costituiscono sì un brutto attentato alla privacy, ma assai meno grave della possibilità di registrare e-mail e contatti telefonici senza autorizzazione giudiziaria, misure già adottate dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre e che pare saranno accette dall’UE dietro pressioni della Gran Bretagna. Se si passasse a consentire anche l’accesso ai contenuti delle comunicazioni, questa sarebbe sul serio una misura da Stato di polizia. La minaccia terroristica non deve essere utilizzata come alibi per smantellare cruciali diritti civili, ma non deve essere minimizzata dal centrosinistra, non deve esserlo sia per ragioni di responsabilità, sia per ragioni di opportunità politica. Il timore dell’Islam, dopo il crollo delle torri gemelle, è cresciuto in termini relativi soprattutto tra l’elettorato colto, un elettorato che vota crescentemente a sinistra.

Sarebbe incosciente lasciare alla destra il merito dell’impegno a proteggere l’incolumità dei nostri concittadini e dei nostri luoghi d’arte. Però, proprio rispetto al terrorismo, è compito della sinistra evitare che la fobia anti-Islam di una parte della destra spinga a compiere un tragico errore: un inasprimento del conflitto ideologico che mette fuori gioco le componenti moderate. Al contrario, occorre essere capaci di spiegare agli elettori che pluralismo, tolleranza religiosa e culturale non sono soltanto valori conquistati con fatica dalla cultura pubblica europea, ma che essi costituiscono oggi uno strumento indispensabile di lotta contro il terrorismo, perché contribuiscono a evitare che il terrorismo possa muoversi in un ambiente amichevole. Le nuove crociate possono far sì che la larga base degli immigrati musulmani arrivi a giudicare con indulgenza i gesti estremi del radicalismo islamista, perché è spinta a considerarli gesti che, pure se in forma deviata, riscattano una dignità collettiva calpestata.

Il progetto di legge (prima De Mita, poi Prodi) sulle libertà religiose permetterebbe di concedere diritti alle minoranze islamiche superando la difficoltà di firmare intese con associazioni che mancano alternativamente o dei requisiti giuridici o di rappresentatività o di affidabilità democratica. Il progetto era stato ripresentato con poche modifiche dal governo Berlusconi, per poi essere bloccato in malo modo dalla Lega. Il vice capogruppo leghista alla Camera, Federico Bricolo, ha definito quella possibile legge «giacobina, relativista, che vuole introdurre il principio caro alla massoneria e all’illuminismo che tutte le religioni sono uguali». E qui emerge la principale falla del governo in tema di immigrazione: l’atteggiamento rustico, xenofobo, aprioristicamente antislamico delle sue componenti estreme, in particolare della Lega. Il capo gruppo leghista Alessandro Cè non è da meno del suo vice, quando per spiegare la sua ostilità a sanatorie e nuovi flussi afferma: «se guardiamo alle esigenze di tutti, diventiamo uno Stato africano e tanti saluti». Il 15 maggio 2002 la Lega, dimentica degli onori tributati al dio Po, annuncia un progetto di legge che impone il crocifisso in tutti i luoghi pubblici. Poco dopo, il 26 giugno la nona sezione della Corte d’appello federale di San Francisco ha dichiarato incostituzionale la modifica apportata nel 1954 al testo originale del 1892 del giuramento di fedeltà alla bandiera, perché la colloca under God (sotto la protezione di Dio), in quanto questo auspicio discrimina agnostici, atei e politeisti. In Italia esponenti di una forza politica oggi al governo hanno cosparso di escrementi di porco le aree destinate a cimiteri islamici, hanno aperto la stagione di caccia contro gli immigrati, hanno appiccato il fuoco a cartoni dove dormivano immigrati, hanno esibito manifesti con bionde bimbe padane invitando gli italiani a fare più figli (per evitare pargoli di aspetto non ariano), continuano a bearsi di un’iconografia macha e nibelungica nei loro raduni. Si capiscono perciò, e tuttavia colpiscono, le dichiarazioni del ministro della Giustizia Castelli che a suo tempo affermò di temere il mandato di cattura europeo perché avrebbe potuto portare a perseguire per il reato di razzismo qualche radunato a Pontida. Un timore che non ha indotto i leghisti a prudenza. Infatti, neanche i cali di pressione che si accompagnano alla calura estiva, hanno fiaccato il prode Bricolo che il 7 agosto ha istigato a scacciare tutti gli arabi dall’Italia, e ancor meno il vicepresidente del Senato il leghista Roberto Caldaroli che il 16 agosto ha invitato le donne italiane a non sposare musulmani, se non vogliono cacciarsi nei guai.

Sulle continue dichiarazioni offensive sui gesti impudichi dei razzisti, sì – di nuovo – vale la pena che l’opposizione di centrosinistra si indigni e si mobiliti. La vistosa xenofobia che caratterizza settori della maggioranza è questa sì molto pericolosa, perché quando il razzismo sale di grado, quando arriva a coinvolgere parlamentari e membri del governo è pubblicamente legittimato. L’uomo della strada si sente autorizzato dall’alto a tenere comportamenti aggressivi. E la xenofobia diffusa, l’ostilità proclamata contro musulmani e arabi non aiuta certo a creare le condizioni per isolare il terrorismo. Ma forse una parte della destra punta proprio su un’escalation del terrore, per incassare i dividendi illiberali della paura. Questa strategia sì va bloccata con forza. Sulla questione delle libertà religiose emerge anche un altro punto di debolezza politica del centrodestra rispetto all’immigrazione: le forti divisioni interne. Una debolezza che l’opposizione ha saputo mettere a frutto utilizzando come sponda la componente più tollerante dell’attuale governo. Ma se il centrosinistra vuole continuare a ottenere qualche soddisfazione politica dai successi di questa strategia non può delegittimare i risultati ottenuti (e con essi i comportamenti delle componenti governative più aperte alle politiche di integrazione) definendo la nuova legge, nel suo insieme, addirittura feroce.

All’Ulivo converrebbe semmai sottolineare i persistenti contrasti interni alla maggioranza e, soprattutto, i continui mutamenti di rotta. Un’esagerata severità nei confronti degli immigrati, la coalizione di centrodestra la mostrava infatti, di certo in alcuni suoi progetti iniziali. Basti pensare alla proposta di consentire i ricongiungimenti familiari solo dopo tre anni di soggiorno regolare, contenuta nel progetto di legge Bossi-Fini. Nella legge approvata, la restrizione del ricongiungimento riguarda i genitori (che possono ricongiungersi ai figli solo se sono o figli unici o gli unici figli in grado di mantenere padre e madre) e i parenti non in grado di sostenersi perché invalidi (sono eliminati nonni e zii, mentre sono ammessi i figli anche se già maggiorenni, art.29 comma 1). Visto che la coalizione ulivista sostiene pubblicamente che l’immigrazione è necessaria perché contribuisce a correggere l’invecchiamento della popolazione e di conseguenza anche gli squilibri pensionistici e sanitari che ne derivano, non può poi considerare scandaloso qualche limite posto all’ingresso di anziani e di invalidi. Sarebbe forse stato più umano limitare il ricongiungimento ai soli genitori che risultassero già conviventi in patria, ma avrebbe comportato maggiori difficoltà di certificazione. D’altra parte, la norma che restringe i ricongiungimenti dei genitori ai figli potrebbe giovare agli stessi immigrati. Per loro infatti l’obbligazione morale di fungere da ponte e puntello a genitori che li seguono nei paesi di immigrazione si tramuta spesso in un onere economico assai più difficile da sostenere del semplice mantenimento a distanza tramite rimesse. Sarebbe di certo gradito agli interessati e socialmente più utile al nostro paese, che ha bisogno di bambini, permettere lunghe visite ai nonni, attraverso speciali permessi di soggiorno temporanei ripetibili e finalizzati ad accudire i nipoti quando sono in età tale da non poter restare da soli mentre i genitori lavorano.

Il gusto amaro della terapia governativa si fa sentire quando si adottano misure che dovrebbero scoraggiare l’immigrazione, che dovrebbero scoraggiare il radicamento degli immigrati, quando si ripropone il modello desueto del Gastarbeiter, del lavoratore ospite destinato a restare per poco. Su questa linea la Bossi-Fini rasenta l’assurdo, quando aumenta da 5 anni a 6 il tempo di residenza regolare necessario per ottenere la carta di soggiorno. Cosa cambia nella sostanza, cosa si vuole annunciare, se non un inutile piccolo intoppo al radicamento e all’integrazione? Perché limitare a due anni il permesso per ricongiungimento familiare, invece di parificarlo a quello del titolare?

Il principale tratto negativo della nuova legge consiste in un insieme di misure che si propongono di rendere l’immigrazione e la permanenza legale più macchinose e difficili. È abolita la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno dietro garanzia di uno sponsor (art.23), con il pretesto che non se ne era fatto un uso opportuno. Però nessuna seria ricerca in merito è stata fatta, né si sono pensate correzioni per evitare eventuali abusi: consentire la sponsorizzazione solo ad enti pubblici e/o ad associazioni riconosciute affidabili, consentirla solo a cittadini italiani o a immigrati titolari di carta di soggiorno. Si poteva introdurre una correzione dello sponsor almeno in via sperimentale. Si sono posti più obblighi in capo al datore di lavoro: garantire la disponibilità di un alloggio adeguato che risponda ai requisiti minimi dell’edilizia residenziale pubblica (art.5bis comma 1a) e depositare i soldi del biglietto per il rientro (comma 1b). Il requisito dell’abitazione potrebbe trasformarsi in un muro all’ingresso per motivi di lavoro. Si è aumentato da trenta a novanta giorni (quasi tre mesi) l’anticipo con cui si devono rinnovare i permessi di soggiorno biennali per lavoro subordinato a tempo indeterminato, a sessanta per quelli annuali a tempo determinato e il rinnovo è stato consentito solo per un tempo pari a quello del primo rilascio e non doppio (art.5 comma 4), come prevedeva la legge n.40/1998. L’iscrizione alle liste di collocamento in caso di disoccupazione passa da un anno a sei mesi. Ancora più grave appare il fatto che, almeno fino al momento in cui viene scritto questo articolo, il governo non abbia varato il decreto flussi per il 2002, un atto al quale lo obbliga la sua stessa legge (art.3 comma 4), ma solo quattro decreti (uno di 33.000, uno di 6.400, uno di 6.600 e un altro di 10.000) per gli stagionali. Contemporaneamente, con la legge n.186/2002, passa l’ennesima sanatoria nei confronti di cameriere e badanti, seguita a ruota, secondo la proposta Tabacci, da un decreto di regolarizzazione degli altri lavoratori dipendenti.

Il centrodestra inaugura la sua politica dei flussi con un premio all’illegalità perché lascia aperta solo quella via. La corsia preferenziale all’ingresso illegale si giova anche di altre misure. La legge prevede, infatti, anche la trasformazione del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età per i minori non accompagnati che non possano essere rimpatriati, purché siano stati inseriti in progetti di integrazione sociale e civile per almeno due anni e siano presenti sul territorio da almeno tre e abbiano un alloggio adeguato, lavorino o studino. La certificazione può essere fatta anche da associazioni private purché iscritte nell’albo speciale depositato presso la Presidenza del Consiglio, quindi gran parte dell’associazionismo cattolico e laico, per la verità poco abituato alla severità nelle certificazioni (art.32, commi 1bis e ter). Non è mai stata sollevata la questione di rivedere il diritto degli immigrati irregolari all’istruzione e alla sanità pubbliche. Cosa apprezzabile perché evita che futuri immigrati regolari cadano in condizioni di degrado. I limiti principali ai diritti degli irregolari riguardano i centri di prima accoglienza per i quali si specifica la necessità della regolarità del soggiorno, mentre si abolisce la possibilità dei sindaci di approntare ricoveri in casi di afflussi clandestini straordinari (art.40 comma 1). Nell’insieme, mentre i diritti degli irregolari si contraggono, sì, ma lievemente, quelli dei regolari si riducono notevolmente: flussi legali limitati agli stagionali, procedure e requisiti complicati per ottenere il contratto di lavoro-soggiorno, ricongiungimenti ristretti, carta di soggiorno con tempi più lunghi, rinnovi più ravvicinati, disoccupazione temporanea meno tollerata, accesso all’edilizia pubblica più difficile.

Si accentua quindi una visione dell’integrazione come utilità (inserimento nel sistema economico). Si accentua pure una visione dell’integrazione come somiglianza (la prelazione da dare nel decreto flussi ai potenziali immigrati che abbiano almeno un bisnonno di origine italiana, art.21 comma 1). Sulla stessa linea della discriminazione positiva a favore degli italiani, la legge reintroduce pure la complicata clausola della verifica di non disponibilità di mano d’opera nazionale e comunitaria prima dell’assunzione di un non comunitario (art.24, comma 1), un vincolo che la Turco-Napolitano aveva abrogato perché troppo macchinoso. Intanto, con un altro provvedimento, si ammettono gli italiani all’estero, inclusi i 164.000 che hanno riacquistato la cittadinanza italiana, persa perché i diretti interessati o loro antenati avevano optato per un’altra cittadinanza, quando la nostra legge non consentiva di conservare la doppia cittadinanza. Una buona politica di integrazione deve contenere anche elementi di «utilità» e di «somiglianza», perché sono in sintonia con il comune sentire della popolazione. Ma è importante non eccedere nel penalizzare immigrati a lungo residenti che non abbiano origini nazionali e che non provengano da paesi dell’Unione. Se si fa questo si rischia di collocarsi in contrasto con una certa saggezza acquisita con il tempo da paesi di più vecchia immigrazione. La Commissione europea, tenendo conto delle esperienze passate e di un prevedibile futuro, ha suggerito, con la proposta di direttiva del 13 marzo 2001, e nella tabella di marcia del 24 marzo 2000, di parificare i diritti sociali dei non comunitari lungo residenti a quelli dei comunitari e di concedere diritti «comparabili» agli immigrati regolari. Si tratta di posizioni alle quali i paesi europei sono arrivati dopo aver constatato il fallimento di politiche che scoraggiassero l’integrazione e il radicamento degli immigrati provenienti da paesi non membri dell’Unione. Certo il clima politico europeo è oggi tale che, anche su questo punto, potrebbero verificarsi marce indietro. L’Italia di Bossi e Tremonti potrebbe contribuire alla marcia a ritroso.

Purtroppo quello che indebolisce la sinistra oggi nella sua azione critica nei confronti della «riforma della riforma» è il fatto che la Bossi-Fini in parte esaspera un difetto già presente, seppure in forma attenuata, nelle politiche della stessa sinistra: una forte oscillazione e una forte contraddizione tra dichiarazioni e misure tese a perseguire la legalità, da una parte, e una pratica di tolleranza dell’illegalità, dall’altra. In particolare, quello che era parzialmente carente in passato e che lo è ancora di più dopo la Bossi-Fini è lo scarso premio per i regolari. Su questa linea la destra ha promesso di fare ancora di peggio rispetto a quanto ha fatto davvero. Un disegno di legge Bossi-Berlusconi, ispirato da Tremonti e sventolato in campagna elettorale penalizzava la regolarità e scoraggiava la stabilizzazione e l’integrazione ben più duramente di quanto è stato fatto: non solo avrebbe voluto consentire il ricongiungimento familiare solo dopo tre anni di residenza, ma diceva di voler tenere fermo a dieci anni di residenza regolare il tetto minimo per potere avviare una domanda di naturalizzazione per gli immigrati non comunitari. In tema di cittadinanza però la Casa delle Libertà si limitava a ribadire il principio di discriminazione nei confronti degli immigrati non comunitari contenuto nella riforma del 1992, che rispetto alla precedente legge del 1912 aveva alzato il requisito della residenza legale da cinque a dieci anni e lo aveva differenziato, abbassandolo per gli stranieri di origine italiana a tre anni e per i comunitari a quattro. Però mentre la destra minacciava di prendere di petto non i criminali o i semplici clandestini, ma anche i diritti dei regolari lungo residenti, la sinistra al governo non contrattaccava. Sulla revisione della cittadinanza, così come sulla questione dell’estensione ai non comunitari in possesso di una carta di soggiorno (che si otteneva dopo cinque anni di residenza) del diritto di voto amministrativo già concesso in base all’articolo 8 b del trattato di Maastricht ai cittadini dei paesi dell’Unione, la sinistra, sia al governo che all’opposizione, si mostrava molto tiepida con poche lodevoli eccezioni, in primis Livia Turco, che però potevano poco. Il diritto di voto è stato rilanciato dal Convegno dei giovani imprenditori tenutosi il 7-8 giungo a Santa Margherita Ligure.

La sinistra, quando poteva farlo, ha trascurato di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dall’immigrazione come emergenza all’immigrazione come fenomeno fisiologico e comportamento normale, compiuto da persone normali, perché non ha focalizzato il dibattito pubblico sui diritti dei regolari a lungo residenti. Diritti che l’elettorato italiano – stando ai sondaggi – era ed è disposto a concedere. E, contemporaneamente, ha rafforzato con il ricorso alle regolarizzazioni e con l’enfasi sulle pur necessarie misure repressive la percezione dell’immigrazione come fenomeno straordinario, come comportamento attuato da invadenti masse disperate. Questo errore è stato decisamente esasperato dall’attuale governo di centrodestra, che però non lo ha inventato ex novo.

L’enfasi sulla irregolarità non è stato però il solo errore del centrosinistra. Il principale «errore» è stato ovviamente quello di trovarsi al governo. La Casa delle Libertà ha potuto utilizzare la questione immigrazione come arma nella competizione elettorale perché il centrosinistra aveva lo svantaggio di doverla governare: se è vero – come sostenevo all’inizio – che tutte le politiche migratorie sono destinate ad un certo insuccesso, a pagarne il prezzo sono i partiti o le coalizioni di maggioranza che le hanno introdotte. A questo svantaggio inevitabile, alcuni (anche se non tutti) leader di centrosinistra hanno sommato notevoli evitabili errori di valutazione e di comunicazione. I provvedimenti politici non servono solo a regolare, hanno anche un aspetto comunicativo: se mi occupo in particolare dell’immigrazione come fenomeno straordinario (regolarizzazioni e repressioni) rafforzo questa percezione nell’opinione pubblica e quindi accentuo paure e rigetti. Ma il più importante errore di valutazione e di comunicazione è consistito nel negare o nel minimizzare la componente criminale o più banalmente deviante, socialmente fastidiosa che si accompagnava ai flussi migratori in Italia. Nel 1999 il rapporto tra stranieri presenti sul territorio e stranieri presenti nelle carceri era di 1 a 14,2. In quello stesso anno abbiamo sentito sperticati elogi della piacevolezza di vita in un quartiere torinese – San Salvario – all’epoca delle dichiarazioni invaso da spacciatori e protettori. Ci è stato detto che non si vedevano segni di criminalità immigrata a Milano. Ha invece pienamente ragione Giuliano Amato, quando sostiene che uno dei motivi di rigetto dell’immigrazione consiste nel fatto che essa ingloba componenti di criminalità grave e minuta e che né la clandestinità, né la criminalità si controllano con l’apparato generale di repressione proprio dell’ordinamento giuridico italiano. Un apparato generale che la destra renderà ancora meno efficiente. Il ritardo con cui una parte della sinistra è arrivata a queste conclusioni ha consentito alla destra di lucrare elettoralmente sulla paura. Ma un errore forse ancora più profondo e persistente è consistito nell’ignorare il fatto che l’immigrazione provoca comunque reazioni di rigetto legate alla resistenza nei confronti della semplice e legale trasformazione del panorama urbano, delle sue insegne, dei suoi profumi, dell’aspetto dei suoi abitanti. L’errore principale è consistito nel non agire con la consapevolezza costante che i processi di integrazione riguardano non solo e non tanto gli immigrati, ma anche e soprattutto i cittadini del paese ospitante. L’immigrazione disorienta l’opinione pubblica, in particolare la disorienta in Italia che è, tra i paesi europei di recente immigrazione, quello che ha ricevuto flussi più rapidi e più abbondanti. Una visione più realistica della psiche umana avrebbe aiutato a fare i conti con quei comprensibili timori. Le benevole ingenuità di una parte della sinistra hanno prodotto un divario tra azione pubblica e opinione pubblica che una parte della destra si è affrettata a cavalcare. Lo ha fatto accentuando ed enfatizzando con le sue dichiarazioni timori e rifiuti, rendendo con questo comportamento pubblico più difficile la costruzione di relazioni a basso conflitto.

La destra provinciale, localistica, xenofoba sta facendo danni ben più gravi di quelli prodotti dalla sinistra ingenua: vuole credere e fare credere che sia possibile evitare che i settori più intraprendenti di popolazione di paesi relativamente svantaggiati si spostino verso paesi relativamente più ricchi di opportunità di lavoro e di reddito, vuole descrivere queste persone come importuni invasori, estranei indesiderati. Quello che distingue decisamente e pericolosamente almeno una parte della destra dalla sinistra è il fatto di volere drammatizzare una situazione già abbastanza difficile, in tal modo aggravandola. La drammatizza più nella retorica pubblica che nelle misure. Infatti quando passa a legiferare, la destra al governo si barcamena, ondeggia. Come, in passato, la sinistra anche la destra al governo è stretta tra le pressioni di un benevola lobby degli immigrati (associazionismo cattolico e laico), le necessità produttive richiamate dagli imprenditori, i vincoli costituzionali e dei trattati internazionali, da una parte, e un’opinione pubblica che vorrebbe meno immigrazione e soprattutto meno immigrazione irregolare, dall’altra. Un’opinione pubblica contraddittoria persino in tema di clandestini e irregolari, perché accetta pure la concessione di sanatorie agli immigrati che lavorano. La combinazione di questi strattoni contrastanti non ha consentito (purtroppo) alla sinistra di governo di perseguire una politica di crescente rientro nella legalità dell’immigrazione, una strategia che premiasse i lungo residenti regolari, che rispettasse il pluralismo religioso. La sinistra ha il merito di aver reso almeno gli ingressi legali praticabili con decreti flussi crescenti, mentre la destra ha reso l’immigrazione clandestina o irregolare, almeno quest’anno, una via obbligata. La persistente pressione sull’attuale coalizione di governo di forze divergenti, alcune favorevoli all’immigrazione e ai diritti degli immigrati, non hanno però neppure consentito alla destra di perseguire la feroce politica antimmigrati che alcune componenti avevano promesso agli elettori.

A parte la maggiore contrazione dei diritti dei regolari, a parte le difficoltà poste a chi voglia immigrare regolarmente e rinnovare regolarmente il permesso, a parte la maggiore enfasi sulla repressione, una parte della destra e una parte della sinistra sono divise da profonde diversità di retorica pubblica. Ed è evidente che soffiare sul fuoco dei timori più o meno fondati dell’elettorato italiano può far guadagnare qualcosa nelle urne, ma può rivelarsi molto pericoloso per la convivenza civile, ancora più pericoloso che snobbare quegli stessi timori, come ha fatto a suo tempo una parte della sinistra. Per questo è importante che l’Ulivo all’opposizione rafforzi i ponti con le componenti più moderate del governo. L’immigrazione rappresenta oggi uno dei pochi settori di policies in cui sono non solo necessarie, ma praticabili, intese trasversali. Il problema è che, ancora una volta, il possibile punto di incontro tra una parte della maggioranza e una parte dell’opposizione riguarda – come abbiamo già constatato – più la tutela degli irregolari che una strategia lungimirante che coniughi una corretta politica degli ingressi, misure di integrazione sui tempi lunghi, un almeno parziale rientro (assai poco feroce) dei datori di lavoro italiani e degli immigrati nella legalità. Un buon governo dell’immigrazione è impossibile.

 

 

Bibiliografia

1 P. Andreas, Borders Games. Policing USA and Mexico Devide, Cornell University Press, Ithaca 2000

2 F. Pastore, G. Romani, G. Sciortino, L’Italia nel sistema internazionale del traffico di persone, Commissione per l’integrazione degli Immigrati, Presidenza del Consiglio, Dipartimento degli Affari Sociali, Roma 2000.

3 È noto che l’area di Schengen non include tutti i paesi dell’Unione (restano fuori Irlanda e Regno Unito). L’Italia ha aderito il 27 novembre 1990 all’accordo firmato inizialmente il 14 giungo 1985 da Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo. La convenzione di applicazione entra in vigore per i controlli aerei il 26 ottobre 1997, la soppressione dei controlli alle frontiere di terra, fissata per il 31 marzo 1998, diventa operativa solo il 31 ottobre 1998, dopo l’approvazione della Legge Turco-Napolitano (n.40, 6 marzo 1998, poi integrata nel Testo Unico n.286, 25 luglio 1998) che, per la prima volta, aveva introdotto la possibilità di trattenere gli irregolari e clandestini in appositi centri (art.14) e già prevedeva severe pene per i trasportatori, specie in caso di sfruttamento (art.12). Il Trattato diventò operativo dopo la messa a regime dell’anagrafe informatica degli ingressi. La libera circolazione nello spazio- Schengen – come del resto persino all’interno dei confini nazionali – è condizionata in seguito alle misure di sicurezza adottate dopo la distruzione delle Torri Gemelle e gli altri atti terroristici compiuti l’11 febbraio 2001.

4 In Italia già l’ultimo decreto flussi del centrosinistra aveva previsto quote riservate agli infermieri e agli informatici, la nuova riforma Bossi-Fini consente l’ingresso di infermieri al di fuori del tetto fissato dal decreto flussi (art.27 comma 1, r-bis).

5 P. Martin, S. Martin, F. Pastore, Best Practices to Manage Migration: Italy and Albania, «International Migrations», in corso di pubblicazione.

6 Progetto che è stato completato e presentato dal governo Berlusconi il 3 maggio 2002. Il vertice di Siviglia 21-22 giugno ha accolto una versione morbida della polizia comune: cooperazione nella formazione e nell’informazione, pattugliamenti abbinati, non un corpo unico.

7 Il nuovo comma 1bis dell’ a rticolo 11, non fa che formalizzare quello che il centrosinistra già faceva.