I miei quattro obiettivi per riformare la pubblica amministrazione

Written by Marianna Madia Wednesday, 05 November 2014 16:09 Print

Dopo la conversione in legge del decreto 90/2014, che costituisce il primo passo della riforma, si apre ora una seconda fase, dal respiro più ampio e che punta a cambiare in profondità la pubblica amministrazione grazie al perseguimento di quattro fondamentali e distinti obiettivi: cittadinanza digitale, riorganizzazione dello Stato sul territorio, concreta semplificazione di servizi e procedure e reale attuazione delle norme. Necessaria premessa del buon esito di questo percorso è però la riforma dei meccanismi di selezione e di carriera di chi si pone a capo della macchina pubblica.

Che pubblica amministrazione avete trovato? E che cosa intendete cambiare? Sono le domande che in questi mesi mi sono state poste con maggiore frequenza. Non condivido una visione integralmente apocalittica della nostra pubblica amministrazione. Si tratta di un corpo sano, ricco di buone pratiche e professionalità eccellenti, dove agiscono però numerose patologie che la rendono debole e malfunzionante. La narrazione della pubblica amministrazione italiana è quella di una lunga decadenza nella quale gli elementi negativi travolgono, nella percezione collettiva, quanto di buono vi è nel lavoro degli oltre tre milioni di dipendenti che vi operano. Se dovessi rappresentare questo concetto con un’immagine simbolica utilizzerei quella di un cittadino che fa la fila a uno sportello di un qualunque ufficio pubblico del nostro paese. Una fila interminabile tra uffici che non comunicano tra loro, norme e adempimenti complicati e molti ritardi. Il cittadino può trovare, alla fine della fila, un dipendente competente e disponibile, ma niente lo ripaga del tempo perduto e delle complicazioni che ha dovuto fronteggiare. Anche le semplificazioni e le innovazioni che sono state approvate in passato, a favore dei cittadini edelle imprese, rimangono molto spesso sulla carta. Un vero e proprio catalogo di tutte queste disfunzioni è contenuto nelle tante storie raccontate da Gian Antonio Stella nel suo ultimo libro o nei casi che i cittadini quotidianamente mi espongono. Quasi ogni cittadino e ogni impresa possono raccontare, senza troppi sforzi, un episodio di cattivo funzionamento, complicazione o non attuazione legati all’amministrazione pubblica.

Abbiamo ritenuto, di fronte a un quadro molto complesso, di dare vita a un processo di riforma distinto in due fasi. Con il decreto legge 90, convertito dal Parlamento con la legge 114/2014, abbiamo realizzato alcuni interventi urgenti, utili a superare diverse iniquità del sistema che contribuivano ad alimentare la percezione negativa della nostra amministrazione. Penso, tra gli altri, all’abrogazione del trattenimento in servizio, al divieto di incarichi dirigenziali retribuiti alle persone già in pensione, alle disposizioni sulle Camere di commercio e sui distacchi e permessi sindacali. In questa logica entrano anche tutte quelle misure, non solo quelle del decreto legge sulla pubblica amministrazione, che in questi mesi il governo ha realizzato per colpire sprechi e rendite di posizione: dal tetto dei 240.000 euro lordi annui per chiunque percepisca compensi nel settore pubblico al taglio delle ferie dei magistrati sino alla drastica diminuzione delle cosiddette “auto blu”. Si è trattato di un’operazione di rottura, che ha incontrato non poche resistenze, e che può generare un effetto positivo per favorire la seconda fase: gli interventi più strutturali e di lungo periodo, che abbiamo inserito in un disegno di legge (con deleghe) attualmente in discussione al Senato. È come se avessimo spalancato una finestra sprangata da tempo, dalla quale facciamo entrare aria fresca e luce, condizioni necessarie per rimettere poi a posto una casa abbandonata.

Gli interventi contenuti nel decreto legge sono stati pensati non solo per dare un segnale di equità, come sopra ricordato, ma anche per introdurre immediatamente alcuni elementi di maggior dinamismo nel sistema e rafforzare la lotta alla corruzione. Per quanto riguarda il primo aspetto, siamo intervenuti innovando profondamente l’istituto della mobilità, obbligatoria e volontaria, dei dipendenti. La mobilità del personale, che altro non dovrebbe essere che uno strumento per assicurare l’ottimale utilizzo delle professionalità, è rimasta sino a oggi praticamente inattuata. Una disciplina troppo rigida e l’approccio culturale delle stesse amministrazioni la rendevano di fatto impraticabile. Il blocco della mobilità è un riflesso della parcellizzazione dell’amministrazione. Troppo spesso citroviamo ad avere delle amministrazioni che ragionano come se fossero un’entità isolata, con i lavoratori tenuti nascosti e considerati una proprietà privata. Abbiamo operato per erodere questo atteggiamento negativo e permettere una vera e sana mobilità di “dipendenti della Repubblica”. Per quanto riguarda invece la lotta alla corruzione, abbiamo dotato di nuovi e più incisivi poteri ispettivi e preventivi l’Autorità nazionale anticorruzione, guidata oggi da Raffaele Cantone. In merito alla lotta alla corruzione voglio soffermarmi su un punto che ritengo importante. La trasparenza, con l’uso delle nuove tecnologie, vuole essere il metodo che questo governo intende utilizzare nella prevenzione dell’illegalità e nella ricerca della maggiore efficienza possibile dell’azione pubblica (e quindi della qualità dei servizi offerti ai cittadini). Mi riferisco, ad esempio, a OpenExpo, la piattaforma online che mette in rete in maniera comprensibile a tutti i costi e i pagamenti legati all’Expo di Milano: è questo un modello replicabile per le altre opere pubbliche, in linea con quanto prescritto a tutte le amministrazioni – anche locali – di mettere online, con modalità omogenee, i loro bilanci. Una considerazione va fatta sul metodo che questo governo sta utilizzando per realizzare le riforme. La riforma della pubblica amministrazione, come altri ambiti dell’attività di governo (Costituzione, giustizia, scuola), è stata preceduta da un grande processo di consultazione dei cittadini, chiamati a valutare le linee guida dell’esecutivo. Le misure varate riflettono i risultati di quella consultazione, anche con alcune differenze rispetto ai progetti originari. Su questo credo sia sempre utile un punto di chiarezza. È sbagliato ritenere che la ricerca di dialogo con i cittadini equivalga alla volontà di “scavalcare” il sindacato o disconoscere il ruolo delle tradizionali forme di rappresentanza. Il ruolo dei sindacati e degli altri corpi intermedi è fondamentale e chiediamo costantemente il loro contributo critico di idee. Questo però non vuol dire, in una società pluralistica e complessa come la nostra, vincolare l’azione politica ad alleanze precostituite e immutabili con i tradizionali blocchi elettorali e sociali. Altrimenti l’azione riformista viene indebolita e frammentata. Oggi un governo riformista costruisce alleanze, in modo pragmatico, sulla base dei reali bisogni collettivi invece che sui rapporti di forza dei tradizionali blocchi sociali.

Dopo la spinta di innovazione, espressa nella prima fase della riforma, la seconda fase ha un obiettivo di ampio respiro. Troppo spesso, oggi, il cittadino – o l’impresa – è piegato ai tempi, ai modi e ai luoghi delle amministrazioni; mentre dovrebbe essere vero il contrario, con un’amministrazione plasmata su tempi e modi dei suoi cittadini. Questo termine – cittadini, non utenti – deve designare correttamente chi usufruisce dei servizi pubblici. Non è solo una questione nominale ma di crescita della nostra democrazia.

Vogliamo impostare l’azione di riforma su quattro grandi obiettivi: la cittadinanza digitale, la riorganizzazione dello Stato sul territorio, la sfida della semplificazione e quella dell’attuazione. Vogliamo costruire, nei prossimi anni, una carta della cittadinanza digitale, non come semplice obbligo per l’amministrazione di digitalizzarsi, ma come diritto del cittadino di godere dei servizi per via telematica. Il digitale deve diventare la via ordinaria, e non soltanto l’eccezione di alcune “buone pratiche” isolate, con cui le amministrazioni si rapportano con i cittadini, attraverso identità e domicilio digitali.

Il secondo asse della riforma è quello dell’organizzazione e della presenza dello Stato, nelle sue articolazioni periferiche, sul territorio. In Italia vi è una carenza di unità dell’azione amministrativa. Troppo spesso la pubblica amministrazione è una sommatoria di entità diverse che non dialogano tra loro e che agiscono in maniera scoordinata, senza un intento comune. Occorre un’unificazione, anche fisica, tanto dei servizi offerti quanto dell’organizzazione delle amministrazioni nei territori. Pensiamo quindi a un unico ufficio territoriale del governo che sia il solo luogo fisico – ci auguriamo, grazie al digitale, sempre meno frequentato – che rappresenti l’azione dello Stato e del governo per i cittadini. Un’operazione che ha anche l’obiettivo della razionalizzazione dei servizi e degli acquisti delle amministrazioni. Le maggiori risorse risparmiate possono essere indirizzate dai servizi di backoffice, che servono alle amministrazioni per la loro organizzazione, a quelli di front-office indirizzati ai servizi al pubblico. L’unitarietà e il coordinamento delle politiche pubbliche sono temi che investono anche il livello del governo nazionale. I governi si comportano molto spesso come una sommatoria di ministeri: una frammentazione degli indirizzi di governo che si traduce in un indebolimento generale. Per questo riteniamo centrale un rafforzamento delle funzioni di coordinamento e indirizzo delle politiche pubbliche da parte della presidenza del Consiglio dei ministri. Nell’ottica di semplificare il coordinamento tra amministrazioni, vogliamo introdurre il principio del silenzio-assenso nei rapporti tra le amministrazioni per evitare che i provvedimenti si insabbino “viaggiando” tra un’amministrazione e l’altra, riformare profondamente l’istituto della conferenza dei servizi che in molti casi è un ostacolo all’attività privata, agire sul concetto di autotutela e rendere certi i casi per l’utilizzo della SCIA.

Quest’ultimo punto, che coinvolge direttamente i governi locali, mi permette di giungere al tema dell’attuazione, senza il quale tutto ciò rischia di rimanere lettera morta. L’attuazione delle norme è una responsabilità politica di cui i governi devono farsi carico, senza far ricadere le responsabilità sulle amministrazioni. Il vero tasso di riformismo di un governo deve essere misurato più che sulle leggi approvate, su quelle realmente attuate. Per questo tra le prime azioni di governo abbiamo promosso una forte alleanza istituzionale con i Comuni e le Regioni, chiamata Repubblica semplice, fondata proprio sul nodo delle attuazioni. Abbiamo ritenuto che per rendere veri e concreti i nostri provvedimenti si dovesse, per prima cosa, coinvolgere chi questi provvedimenti deve farli funzionare e portarli nelle vite dei cittadini. Vi è, infatti, un doppio livello dell’attuazione: quello degli organi di governo che devono produrre gli atti necessari per concretizzare una norma (i decreti attuativi) e quello dell’esecuzione concreta che, nella maggior parte dei casi, è affidata agli enti territoriali.

Vi è poi la grande questione generale della semplificazione, che riguarda ogni livello amministrativo. Molti governi hanno promosso interventi di semplificazione che non hanno portato i risultati sperati. E ciò per due ragioni. In primo luogo perché, come ho già scritto, al varo delle norme non si è accompagnata una puntuale attuazione; in secondo luogo, perché troppo di frequente ci si è concentrati più sulla “governance” della semplificazione che sulla concreta semplificazione di alcuni importanti servizi e procedure. Per questo motivo presenteremo entro fine ottobre un’agenda triennale della semplificazione focalizzata sui temi che gli stessi cittadini ritengono più complicati: fisco, salute, disabilità, edilizia. Infine, ma qui solo in ordine di trattazione, vi è il tema della riformadella dirigenza. Il grande processo di cambiamento che ho descritto ha come necessaria premessa la riforma dei meccanismi di selezione e di carriera di chi si colloca alla testa della macchina pubblica, dunque delle professionalità chiamate a guidare il processo. Quando si parla di dirigenza è necessaria una scelta radicale, che va dichiarata. Vi sono due possibilità: si può decidere che vi sia una dirigenza di ruolo e selezionata per concorso – come prevede la Costituzione – e sulla quale il pubblico investe. Ma si può anche decidere che la politica si assuma delle responsabilità maggiori in una logica di scelta diretta dei dirigenti. Pur ritenendo le due scelte assolutamente legittime, nel disegno di legge abbiamo deciso di investire sulla dirigenza di ruolo, quindi su quella assolutamente indipendente dalla politica. Si tratta di una scelta che abbiamo fatto perché consideriamo questo un modello migliore per realizzare i processi di cambiamento. Tale scelta non deve però tradursi, come è sin qui stato, nel costituirsi di un corpo rigido, bloccato e poco incline a meccanismi di selezione meritocratica. La scelta di una dirigenza di ruolo va coniugata con l’introduzione di elementi di maggior dinamismo, di incentivazione del merito e dei risultati prodotti. Occorre creare un mercato del lavoro della dirigenza. Penso che non sia contraddittorio affermare che si possa puntare su una dirigenza indipendente e di ruolo, ma con meccanismi di competizione più vicini al mercato che non alla paralisi e alla conservazione. Il nostro obiettivo è la creazione di un sistema che, salvaguardando l’indipendenza e l’autonomia, preveda elementi di sana competitività propri del mercato del lavoro della dirigenza privata.

La riforma, che in questa sede ho descritto soltanto in termini generali, è un processo articolato – all’approvazione del disegno di legge dovranno seguire i decreti attuativi e delegati – destinato, a nostro parere, a incidere profondamente sull’evoluzione del paese e a favorirne la ripresa. Questo governo, nei suoi primi mesi di vita, ha messo mano al funzionamento di tutta l’architettura della Repubblica – dalla riforma costituzionale, alla legge Delrio sugli enti territoriali, alla riforma della pubblica amministrazione – in un progetto unitario che rafforzi la qualità della nostra vita democratica anche per le generazioni future.

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