Cambiare la scuola

Written by Luigi Berlinguer Wednesday, 14 October 2015 14:45 Print

Alla presa d’atto che i mutamenti epocali in corso impongono una radicale trasformazione dell’impianto scolastico in Italia fanno da contrappeso l’apparentemente diffusa contrarietà al cambiamento, la volontà di difendere la scuola così com’è oggi, anche – ed è questo è il tratto più preoccupante – nel suo impianto autoritario e classista. La sfida più grande sta proprio nello smantellare i tratti dell’istituzione scolastica che consentono il perdurare della sua impostazione non egualitaria. Quanta consapevolezza c’è nella sinistra che questa è la vera posta in gioco?

Cambiare l’impianto scolastico nelle sue fondamenta è oggi l’imperativo categorico per il nostro paese. E cambiare consiste nel fondarlo sull’apprendimento e su uno stretto collegamento con l’Europa. È ciò che chiede il mutamento epocale che stiamo vivendo, è ciò che vari paesi evoluti hanno già avviato. Cambiare. Cambiare. Lo ripeto perché mi pare di non essere udito, perché non è certo questo il tono dominante del dibattito politico che agita le discussioni attuali in materia. Imparare, il protagonismo consapevole di chi impara, lo studente: ecco i grandi assenti di questa stagione. Male, perché in Italia siamo in ritardo e non ci possiamo permettere di ritardare ancora, né tanto meno se lo possono permettere le forze progressiste. La cultura educativa nel nostro paese è molto invecchiata, nelle classi dirigenti, fra molti intellettuali, ma anche diffusamente nella popolazione. È vecchio ciò che in genere si pensa debba essere la scuola oggi, ed è singolare che anche in questi mesi in cui la scuola è stata inusitatamente centrale nella politica, nel governo, nei media, la necessità di questo cambiamento radicale non si sia affacciata con la dovuta rilevanza; anzi, non se ne è quasi parlato. Al contrario, l’umore diffuso sembra essere – di fronte al paventato “attacco alla libertà docente” – di resistenza al cambiamento, di oggettiva difesa della scuola così come è oggi (anche se non sempre lo si ammette): conservare, cioè. Fanno eccezione alcune significative innovazioni in corso in molte scuole.

Contribuisce a favorire questo esito una identificazione dell’intera istruzione con la scuola secondaria nella quasi esclusiva sua articolazione in varie materie non intercomunicanti (l’“iperdisciplinarismo”). Tornerò su questo aspetto. Alimenta la inconfessata contrarietà al cambiamento la diffusa perplessità, insensibilità verso la più grande rivoluzione sociale della seconda metà del Novecento: l’espansione scolastica in tutti i gradi, compresa la secondaria. Il dato sociale espansivo, cioè, che chiama energicamente la centralità dell’apprendimento. Il vero obiettivo pertanto non è più “l’obbligo” ma la scuola per tutti, di tutti; tendenziale fatto strutturale della società della conoscenza, un nuovo comportamento di massa; non tanto indotto da una sapiente politica educativa (ahimè!) ma piuttosto da un inarrestabile vero bisogno sociale. Bellissimo. Duole che esso non sia da tutti compreso appieno, che lo si guardi con diffidenza, che sia non digerito, anzi ostacolato, che la sinistra non ne abbia fatto un fondamentale cavallo di battaglia della sua lotta di emancipazione umana. Quante volte si sente dire, di fronte alle difficoltà di uno studente: “guarda che studiare non fa per te, perché non vai a lavorare?”. In altri paesi il fenomeno espansivo è invece sostenuto, agevolato; si è compreso che con la sola scuola media non si trova più lavoro. È bello che in Italia la CGIL abbia assunto questa ipotesi nella sua politica generale.

Le resistenze e gli ostacoli al pieno affermarsi del fenomeno espansivo si riassumono nel fatto che in Italia la scuola è ancora una scuola di classe. È vero che il suo sviluppo quantitativo ne ha rappresentato un importante temperamento: che si diplomi ora in Italia il 75% dei giovani è certo un dato di rilevante equità sociale. L’Italia è oggi migliore di cinquanta anni fa (anche se è indietro rispetto all’Europa): sciocco non prenderne atto. Ma è altrettanto evidente il grave limite che, pur facendo entrare tutti a scuola, il risultato è che una parte finisce per “scaldare i banchi”, per “disperdersi”. Ecco la nuova iniquità: si garantisce il diritto all’accesso (formale) ma si manca l’obiettivo del successo formativo. Ritorneremo anche su questo.

Esaminiamo alcuni aspetti della natura classista (e autoritaria) della nostra scuola: la trasmissività, il già richiamato iperdisciplinarismo, il rifiuto di considerare il lavoro come cultura, il logocentrismo, la chiusura al territorio, l’eccesso di formalismo e centralismo. Una tale scuola secondaria non può che organizzare il suo intero apparato epistemologico, i vari saperi, le metodologie didattiche in modo speculare all’attuale struttura delle professioni, cioè a un mercato del lavoro esso sì classisticamente ordinato, consolidando così i vecchi equilibri sociali. È questo il cambiamento: intaccare in tal modo l’odierna natura classista della scuola, e alzare a questo scopo il respiro teorico dell’impresa. La politica scolastica oggi più che mai deve fondarsi su una forte ambizione strategica, senza perdersi dietro problemi particolari (credo che questo valga per tutta l’azione progressista): la sinistra non abdichi a questa sua precisa funzione. È ardua impresa conciliare espansione e qualità, che diventa impossibile se non si procede al cambiamento radicale dell’impianto educativo nel senso della centralità dell’apprendimento. Perché la domanda di massa o la si “disperde”, la si elude, o rischia essa stessa di abbassare la qualità generale dell’istruzione. Nella sinistra c’è consapevolezza, condivisione, che questa è la vera posta in gioco? Che per soddisfarla, darle risposta, vanno intaccati alcuni tabù, luoghi comuni, principi teorici invecchiati? Siamo sicuri di essere disposti a una tale severa, coraggiosa, anche dolorosa serie di misure in questo senso? Si badi che le classi dominanti non saranno affatto arrendevoli, e che useranno spregiudicatamente alcuni dei vecchi argomenti culturali della sinistra (come già accade), col supporto dell’estremismo (malattia infantile...)?

Un fugace accenno ai singoli aspetti richiamati. Trasmissività: incentrata sulla lezione (e sull’interrogazione), la scuola trasmette conoscenza, quasi preconfezionando il sapere, per un destinatario che registra più che digerire, anche perché gli epistemi si trasmettono già strutturati. Al contrario, oggi si richiede di problematizzare l’approccio conoscitivo, perché così si stimola il protagonismo dello studente, un suo proprio apporto, responsabilizzando in tal modo l’apprendimento. Ecco un importante cambiamento, il quale deve tuttavia fare i conti con quanto già detto circa l’iperdisciplinarismo. A scuola si va per imparare l’italiano, la matematica, la storia, tutte le discipline, separate tra loro: le singole materie cioè assorbono la quasi totalità dell’insegnamento (e dell’insegnante) e dell’apprendimento (e quindi del discente). Questo oggi non è più valido, perché così il sistema disarticola, frammenta il sapere, non offre occasioni istituzionali e organizzative alla ricomposizione unitaria del sapere stesso, al confronto interdisciplinare, alla contaminazione tra epistemi, alla valorizzazione delle loro “strisce marginali”, che spesso costituiscono le avanguardie della ricerca e della cultura. Inoltre, l’eccesso di frammentazione impedisce il costituirsi delle comunità educanti, fra studenti, fra studenti e docenti, fra docenti stessi, perché i ragazzi parlino fra di loro, vivano la scuola insieme, oltre che nei necessari momenti di studio individuale.

Nel curriculum, nel complesso dell’istruzione italiana brillano alcune assenze. Una fra tutte: l’arte. In Italia la creazione artistica non è considerata cultura formativa, non ha diritto di cittadinanza nella scuola, non educa, è inutile; anzi, è nociva, perché distrae, allontana da quel che Seneca considerava magnum gaudium: l’aurea severitas. Abbiamo una scuola logocentrica che forma solo l’homo rationalis, educa al ragionamento; e oscura l’arte “perché non è conoscenza”. Una bestemmia. Mi si perdoni la licenza espressiva, forse irriverente, ma non è facile ragionare su un tale vuoto intellettuale. Il primo moto è l’indignazione, perché così si è sacrificato l’emisfero destro del cervello e privato i nostri alunni dell’enorme beneficio che loro deriverebbe, ad esempio, dalla gioia che provoca l’esperienza artistica (anche a scuola). Non entro qui nel dettaglio, rinvio a quanto finora prodotto di dottrina e di esperienze educative, ad esempio, dalla battaglia per la musica praticata nella scuola. Facilmente consultabili. Ma non posso tacere la convinzione – dato che la cancellazione dell’arte praticata dalla scuola non può essere stata una svista né solo una madornale topica culturale – che vi abbia concorso anche un disegno classista: se si riduce l’apprendimento all’ambito logico, all’astrattezza concettuale, si riduce la platea dell’espansione scolastica, dato che si esclude un ampio numero di studenti propensi a differenti approcci cognitivi, a un percorso dell’esperienza, della forte inclinazione personale, dell’emisfero destro, in una parola. Si esclude (e può tornar comodo) e si mutila l’espressività, si comprime la creatività, e si finisce per ridurre la grande forza educativa della scuola: inaudito.

Di analoga gravità sono le altre assenze del curriculum italiano, fra cui il lavoro e il territorio. Il lavoro per vari motivi. Ne ricordo due: esso è oggi, più che mai, cultura; un’attività che non può essere contrapposta al sapere; laddove l’esercizio di entrambi va invece educativamente connesso. E dopo Max Weber trovo povero sottovalutare il beruf, la professione, proprio in un’ottica educativa. È sbagliato temere la contaminazione sociale del sapere (Banfi), attestarsi ancora su una linea neoidealista che ha già segnato di sé, anche classisticamente, la nostra storia culturale e scolastica. Chiariamoci: nessuno pensa di accettare la strumentalizzazione economica o, peggio, aziendale del sapere. Ma un rapporto corretto tra sapere e costruzione della persona come essere sociale, e quindi come professionista, a me pare oggi più che mai ineludibile.

La vera novità – incompresa dalla vecchia sinistra estrema, intrisa com’è di crocianesimo e gentilismo – è capire e organizzare il modo in cui il sapere penetra il lavoro, il reale, come lo illumina, lo arricchisce e ne assorbe tutta la pregnanza della responsabilità sociale e produttiva. E per converso come la vita sociale e le sue regole cooperano con il mondo e le regole della conoscenza. Sapere e lavoro: affascinante, nuovissimo motore della crescita umana, base di una funzionante società equa e democratica. I giovani lo reclamano, la domanda culturale odierna ne è piena. Fondamentale è allora come tutto ciò si costruisce, la qualità dell’impianto pedagogico che porta a un tale ambiziosissimo risultato. Hic Rhodus, hic salta. Una strategia educativa per la promozione umana del lavoratore moderno o è ambiziosa, o iscrive le grandi sfide dell’oggi in un’ottica progressista, o non è. È istruttivo (inaccettabile) che certo estremismo rifiuti il rapporto scuola-lavoro, voglia tenere il lavoro fuori dalla scuola.

Infine, la scuola nuova deve essere aperta alla società, al territorio, alla ricchezza dell’offerta formativa che da questi proviene: all’apprendimento informale e non formale. La loro grande ricchezza educativa deve entrare dentro la scuola, è anch’essa scuola. In Europa si parla di “cultura dell’apprendimento permanente”, di “flusso ininterrotto di occasioni di imparare prima, durante e dopo la scuola”, di “scuola dopo la scuola”, di “lifelong learning” e di “lifewide learning”. La concezione tradizionale di scuola riservata alla sola età giovanile e solo al mattino è culturalmente tramontata. Stava anche lì una delle sue basi classiste, perché le differenze socioculturali delle famiglie segnavano i risultati dello studio: nella vecchia scuola lo studente studia a casa, al pomeriggio, fuori dall’organizzazione scolastica, preda delle differenze sociali; la scuola lascia lo studente da solo nell’attività di studio. L’allargamento culturale rispetto al percorso solo formale, la scuola aperta hanno quindi una duplice valenza: di riforma intellettuale e di importante misura di equità sociale. Invero, spetta a un progressismo serio e coraggioso conciliare rinnovamento culturale ed equità: sta qui l’ambizione del respiro teorico.

Se imparare diventa centrale, giustamente la Commissione europea ci propone uno “spazio europeo dell’apprendimento”: l’integrazione con il sistema scolastico delle competenze che sono fuori dai contesti istituzionali, dall’apprendimento formale, per giungere a un “ecosistema di apprendimento” che tende a ribaltare la vecchia scuola. Anche così si cambia il sistema educativo, puntando sul protagonismo studentesco, su un’ampia flessibilità complessiva, sull’apertura cultural-disciplinare; e poi attraverso nuovi sistemi di valutazione complessiva, sia di quel che matura nell’ordinario di una classe scolastica, sia dell’efficacia e dell’acquisizione dell’apprendimento “fuori della scuola”. La scuola aperta riuscirà così a potenziare i tradizionali strumenti di base teorico-culturali e disciplinari, che ne hanno fatto la fortuna finora, integrandosi con l’allargamento e il reciproco arricchimento, grazie all’acquisizione dei nuovi contenuti e delle nuove metodologie che provengono dal complesso della nuova offerta formativa.

Spetta alla nuova scuola organizzarsi in tal modo e a questo scopo, dando corpo all’autonomia, alla capacità progettuale, alla flessibilità che questa comporta, agli organi di gestione che questo richiede. Scuola aperta, tutto il giorno, tutto l’anno, tutta la vita. Si può iniziare dal cambiamento netto dell’orario (e calendario) scolastico: quello ottocentesco – solo mattino, con cadenza settimanale – deve essere modificato, e da subito, con urgenza. Le norme attuali lo consentono, varie scuole sono già su questa strada: l’opinione pubblica (ma anche tanta politica e varie istituzioni) non sanno che in Italia esistono centinaia, forse migliaia di importanti esperienze di innovazione educativa. Qui è la didattica innanzitutto che sta mutando: ottima e concreta premessa dell’auspicato cambiamento della scuola. Bisogna partire da lì; si usi la normativa esistente; per carità, si eviti di ricominciare a fare nuove leggi, che nascerebbero già vecchie. Il vero grande riferimento è l’articolo 3 comma 2 della Costituzione: rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla libertà ed eguaglianza di fatto.

Altrettanto dicasi a proposito della flessibilità curriculare: introdotta con l’autonomia, essa è stata soffocata sia per la resistenza dei titolari delle singole discipline, sia per le procedure burocratiche imposte. Perciò occorre sviluppare la capacità progettuale dal basso, con vero approccio riformista. Particolare attenzione, fra l’altro, va prestata all’importante novità introdotta dalla legge 107, che istituzionalizza l’opzione curriculare offerta agli studenti del triennio finale di scuola, con cui si consente loro di scegliere una parte (non estesa) del proprio curriculum fra gruppi di argomenti/materie. Fatto culturale rilevante e già largamente praticato anche da tempo nei paesi evoluti. Esso aumenta le opportunità di protagonismo culturale responsabile e di soddisfazione delle inclinazioni dello studente e rafforza il processo di democrazia educativa. Varie sono, quindi, e concretamente individuabili, le misure innovative per realizzare un vero e profondo cambiamento, in questa sede sommariamente richiamate. Una linea di strategia e concretezza. Un nuovo umanesimo, che collochi alla sua base l’essere umano che cresce, il discente protagonista. Il quale dalla scuola dev’essere attratto, con un mix di appeal, di piacere, di eros (Platone), insieme all’impegno e alla fatica responsabili. Con una molteplicità di servizi moderni ed efficaci. Con un forte collegamento con le strategie europee. Partendo anche dal cambiamento della formazione iniziale universitaria dei docenti: non ci si deve più limitare a quella disciplinare e logocentrica, ma fondarsi su un corretto rapporto fra sapere e fare.

Da ultimo: in Italia siamo abituati a considerare soggetto di attuazione delle leggi la pubblica amministrazione, riducendo tutto a competenza amministrativistica. Il corpo docente sarebbe un semplice destinatario dell’applicazione legislativa. Errore: la normativa scolastica è un mix di diritto formale e di contenuti educativi, che richiede anche il protagonismo della competenza docente, specie se si segue una linea di implementazione evolutiva in progress, come ritengo debba essere oggi nel caso dell’impianto scolastico complessivo. Una linea di vero indirizzo autonomistico, di arricchimento permanente. Implementare il patrimonio autonomistico delle nostre scuole: non attendiamoci più che siano altri a interpretare e realizzare le conquiste con difficoltà strappate in questi anni. Sia la scuola la vera protagonista, giorno dopo giorno, di questo indispensabile cambiamento, imponendo nuovi indirizzi, anche in sede di implementazione, già da ora interpretando essa stessa, e le scuole, i docenti, i dirigenti, l’ordinamento esistente.