Il futuro dei rifiuti nell’economia sostenibile

Written by Umberto Monarca e Cesare Pozzi Tuesday, 24 May 2011 16:44 Print
Il futuro dei rifiuti nell’economia sostenibile Illustrazione: Anna Sutor

La recente crisi economica avrebbe potuto portare a un ripensamento del nostro sistema produttivo: i rifiuti industriali e quelli solidi urbani potrebbero ridursi drasticamente se solo stili di vita e normative evolvessero in senso sostenibile. Delocalizzare la produzione non serve; bisogna invece promuovere a livello mondiale processi produttivi attenti all’ambiente.

Produrre rifiuti e quindi gestirne il processo di smaltimento è connaturato all’agire umano, ma è solo con l’affermarsi di un’economia di mercato che il fenomeno ha assunto proporzioni ormai bibliche. Al fine di affrontare il tema in modo costruttivo è necessario esplorarne attentamente le determinanti, per sfuggire ai luoghi comuni e provare a comprendere perché anche una buona legge come il decreto Ronchi sia risultata sostanzialmente inefficace. Una buona legge sicuramente nelle intenzioni: le famose “4 R” del decreto prevedevano infatti un percorso integrato che iniziasse con la riduzione all’origine dei rifiuti, il riuso, il riciclo dei materiali ancora utilizzabili e infine il recupero, sia in termini di energia che di materia.

Nella pratica, però, il primo, fondamentale obiettivo di riduzione dei rifiuti, necessario per poter dar vita al resto del ciclo, è stato abbondantemente mancato: la quantità di rifiuti pro capite nel nostro paese è addirittura cresciuta dai 450 kg del 1996 ai 541 kg del 2008 (dati del Rapporto ISPRA 2010). Anche la raccolta differenziata, che costituisce una precondizione per l’attivazione del ciclo, non ha dato grandi risultati e stenta a decollare: nel 2008, infatti, solo il 30,6% dei rifiuti è stato differenziato, percentuale che nel Mezzogiorno scende a un esiguo 14,7%, contro il 22,9% del Centro e il 45,5% del Nord.

Il combinato disposto di questi due insuccessi ha fatto sì che la quantità di rifiuti pro capite sia aumentata più rapidamente rispetto alla capacità della raccolta differenziata di ridurne l’impatto, con l’inevitabile effetto di far lievitare i rifiuti da destinare al recupero energetico o allo smaltimento in discarica.

Le problematiche ovvie e ben note legate allo smaltimento, all’individuazione e gestione delle discariche e alla difficoltà di reperire nuovi siti hanno determinato una pressione indebita sull’opzione di valorizzazione energetica dei rifiuti che è stata alimentata da una serie di equivoci relativi alle opportunità della cosiddetta “termovalorizzazione”.

La fase del recupero in termini di energia è infatti strettamente connessa con lo sviluppo del combustibile derivato dai rifiuti (CDR) che, nato inizialmente per alimentare le fornaci esistenti delle industrie pesanti, è stato progressivamente considerato come una risorsa economica in grado di sostituire gli altri combustibili bruciati nelle fornaci di specifici settori. Il fallimento di questo progetto ha comportato la necessità di smaltire il CDR che nel frattempo era stato prodotto e accumulato, ma soprattutto ha reso indispensabile chiudere la “filiera del rifiuto”, dopo che paradossalmente le politiche di riduzione e di raccolta differenziata non hanno fatto altro che incrementare la quantità di rifiuti da smaltire.

Solo in questo quadro si comprende l’emergere dei termovalorizzatori, che sono semplicemente forni idonei a esaurire il CDR e a ricavare energia dai rifiuti così trattati. I termovalorizzatori hanno, da un lato, beneficiato di incentivi statali sulla vendita di energia prodotta (attraverso il cosiddetto CIP6[1] prima e i certificati verdi poi), il cui onere grava sugli acquirenti di energia; dall’altro, non pagano i costi di produzione del combustibile da rifiuto che utilizzano, costi che sono interamente a carico della collettività e, anzi, ricevono un pagamento proporzionale al peso in entrata del CDR. Assommando le diverse componenti, il costo effettivo dello smaltimento dei rifiuti a carico dei cittadini è lievitato senza produrre soluzioni utili al problema ecologico che si vuole affrontare. Sotto il profilo strettamente ambientale, infatti, la termovalorizzazione presenta forti inefficienze e non può essere considerata un’alternativa effettiva al costoso smaltimento in discarica.

I cosiddetti “bilanci di massa” del ciclo CDR/termovalorizzazione, ovvero il rapporto tra quantità di rifiuto che entra nel ciclo di trattamento e quantità di rifiuto che esce ed è poi destinata alla discarica, dicono chiaramente che l’equivalente in peso di ogni quantità di rifiuto trasformato in CDR che entra nell’arco di tre anni nel termovalorizzatore viene restituito in rifiuto da discarica nel giro di quattro anni: il problema dello smaltimento per questa via rimane praticamente irrisolto. In sostanza, il recupero di energia dai rifiuti, almeno nel ciclo CDR/termovalorizzatore, è un falso mito che andrebbe valutato e analizzato con molta più attenzione.

L’insuccesso delle politiche ispirate dal decreto Ronchi costringe a una riflessione di carattere generale: il tentativo è stato inefficace perché non poteva generare politiche coerenti con gli obiettivi dichiarati senza prescindere da una trasformazione del modello di produzione e consumo attuale. Fino a ora, infatti, il problema della sostenibilità ambientale e quello delle risorse naturali sono stati considerati nel loro rapporto di mera strumentalità con le relazioni che caratterizzano i modelli attuali di organizzazione sociale. Il punto sostanziale è rovesciare l’ottica, facendo della sostenibilità il driver fondamentale di una nuova configurazione del sistema di relazioni economiche e sociali attraverso un opportuno impianto regolatorio.

L’approccio tradizionale, per quanti sforzi si possano fare, porta necessariamente in un vicolo cieco, perché spinge verso l’esaurimento delle risorse disponibili in natura a velocità crescente. I nostri sistemi sociali poggiano su un’idea di miglioramento della qualità della vita, nella libera determinazione degli individui legata a una disponibilità crescente di beni e servizi che le dà una grande forza di diffusione, ma richiede di riflettere sulla consapevolezza di ciascuno degli effetti collettivi dei comportamenti individuali relativamente ai rischi dell’insostenibilità ambientale.

Purtroppo un’interpretazione semplificatoria del funzionamento della realtà, tipica di una teoria economica ripiegata su se stessa e autoreferenziale, ha ridotto l’economia allo studio di funzioni di produzione a capitale e lavoro, costruendo un sistema chiuso all’interno del quale diversi agenti e diverse tecnologie competono tra di loro sulle dimensioni di produttività ed efficienza. Le funzioni di produzione, così intese, consentono di individuare la combinazione più efficiente di fattori produttivi tenendo conto dei prezzi correnti e di modificare tale combinazione al minimo segnale di prezzo: implicitamente si richiede che sia possibile sostituire senza costi ciò che i prezzi non rendono più conveniente.

Questo approccio non considera il problema dei flussi che alimentano e che derivano dai processi produttivi e impedisce di considerare tali processi in termini di complementarità tra fattori, focalizzandosi solo su una loro ipotetica sostituibilità guidata dai prezzi, che porta naturalmente a sprecare risorse. Il punto è che qualsiasi modello di produzione e consumo genera rifiuti industriali e rifiuti solidi urbani (RSU), che rappresentano due facce della stessa medaglia e devono essere gestiti a sistema. Ma come?

Una falsa soluzione è quella che, forse in modo involontario, stiamo adottando sulla scia del processo di globalizzazione, ovvero smettere di produrre e delocalizzare quella manifattura considerata relativamente più responsabile della produzione di rifiuti. Questa possibile soluzione pone due problemi: il primo di ordine etico, il secondo di sostenibilità economica. Da un lato, lo spostamento dei processi produttivi inquinanti trasferisce l’impatto diretto di esternalità negative per la vita e la salute verso popolazioni in via di sviluppo, lasciando ai cittadini delle economie avanzate i benefici del consumo dei prodotti di questi processi. Dall’altro lato, il deterioramento ambientale non ha confini e le problematiche affrontate in un contesto territoriale si trasferiscono in altri e su scala globale: basti pensare all’effetto serra. Ne consegue che se non possiamo smettere di produrre, allora è necessario improntare tutto il sistema economico alla ricerca di soluzioni che devono anticipare ciò che inevitabilmente accadrà.

La crisi strutturale del 2008 aveva aperto una finestra di opportunità per ripensare il modello sociale esistente e le sue categorie interpretative che pare essersi momentaneamente chiusa, come dimostrano i tentativi di puntellare gli assetti attuali che si stanno configurando su scala globale. Invece la crisi poteva essere l’occasione per proporre una trasformazione culturale profonda in senso ambientale, orientando l’organizzazione sociale nella direzione della sostenibilità e promuovendo di conseguenza stili di vita, filiere produttive e mercati sempre più “verdi” e quindi compatibili nel lungo periodo con il benessere delle generazioni future e del pianeta.

In un percorso simile, un paese come l’Italia, che oggi è posizionato su un binario morto dell’economia globale, avrebbe la possibilità di reinventarsi ricercando soluzioni innovative nel rapporto tra processi economici e sostenibilità ambientale. I rifiuti rientrano ovviamente in questo ordine di considerazioni e qualche riflessione in prima battuta a proposito è possibile.

Paradossalmente gli insuccessi del passato possono indicarci il modo per procedere a un cambiamento indispensabile e spingere nella direzione di una trasformazione strutturale del nostro sistema. Partendo da questa riflessione è possibile delineare alcune semplici regole sulle quali impostare un futuro percorso virtuoso: a) modifica del modello di consumo, utilizzando anche le opportunità offerte dalle tecnologie informatiche; b) reingegnerizzazione dei processi aziendali dei beni durevoli (con l’adeguamento delle normative su sicurezza ed emissioni, imponendo un level playing field ai prodotti esteri); c) raccolta differenziata totale dei rifiuti solidi urbani; d) utilizzo di nuove tecnologie per intensificare il recupero dei materiali e minimizzare lo smaltimento in discarica.

Riguardo al primo punto, si potrebbe orientare il modello di consumo attuale verso orizzonti più sostenibili, finalizzati a minimizzare l’utilizzo degli imballaggi e, in ultima istanza, lo spostamento delle merci. Le tecnologie informatiche, ad esempio, consentono di effettuare acquisti a distanza, programmare e scadenzare le consegne, ottimizzare i volumi di carico delle singole merci aggregando acquisti di uno stesso bene effettuati da consumatori diversi. In questo modo, promuovendo un sistema che dal singolo consumatore si evolva verso gruppi di acquisto, si favorirebbe l’emergere anche nel pack - aging di processi innovativi e di larga scala volti alla riduzione degli imballaggi.

La possibilità di garantire nuovi servizi di acquisto complessi e integrati, in grado di associare più soggetti consumatori, oltre a permettere risparmio di tempo e sconti sui prezzi, promuoverebbe un nuovo modello di consumo in grado di creare opportunità innovative nel settore logistico, richiedendo allo stesso tempo una completa riorganizzazione, con ricadute positive sull’ambiente in termini di minimizzazione degli spostamenti e riduzione dell’inquinamento da essi causato.

Sotto il profilo strettamente industriale, invece, andrebbe promossa un’effettiva reingegnerizzazione dei processi produttivi, con il duplice scopo di ridurre i rifiuti industriali generati nella fase di produzione e di massimizzare le opportunità di riciclaggio dei beni finali. Un punto ineludibile in questo ambito è la promozione di politiche tese a un effettivo level playing field tra industria nazionale ed estera, concetto che dovrebbe sostituirsi all’attuale race to the bottom dei settori produttivi verso assetti normativi laschi sotto il profilo ambientale, dovuta a un uso improprio dei modelli di delocalizzazione produttiva.

Poiché l’ambiente è un problema globale, è una falsa soluzione delocalizzare dove ci sono normative ambientali meno stringenti; al contrario, andrebbero promossi a livello mondiale processi produttivi sostenibili, tramite una effettiva armonizzazione di regole e normative (level playing field) in grado di favorire a ogni latitudine la tutela ambientale con la medesima intensità.Questo obiettivo deve accompagnarsi a un ripensamento delle fasi di progettazione di nuovi prodotti, all’interno delle quali dovrebbe essere ricompreso anche lo studio dello smaltimento finale del prodotto stesso, favorendo così l’utilizzo di materiali facilmente riciclabili e soprattutto un design industriale che consenta con maggiore facilità la separazione della componentistica e dei diversi materiali utilizzati una volta che il prodotto ha esaurito la sua vita utile, permettendo il loro riutilizzo.

Un terzo aspetto fondamentale è rappresentato dalla raccolta differenziata, unica modalità che consente di “ridurre” l’utilizzo dell’ambiente a parità di consumi e che presenta il vantaggio di poter essere condotta con l’obiettivo di rendere i rifiuti gestibili, generando materie prime seconde necessarie per la fase del riuso.

L’incentivazione della raccolta differenziata può essere ottenuta grazie alla leva fiscale, con la fissazione di rigidi obiettivi imposti dalle autorità centrali ai singoli Comuni e di penalità per gli enti locali che risultino inadempienti, ma passa di necessità per una nuova coscienza ambientale che porti a forme di sanzione verso chi non la pratica.

Le forme di organizzazione della raccolta differenziata sono un ulteriore elemento essenziale: come dimostrano in modo inequivocabile i dati APAT su alcune Province campione, le migliori perfor - mance sono ottenute laddove la raccolta è effettuata “porta a porta”. Questo sistema ad alta intensità di lavoro costituirebbe, inoltre, un’importante opportunità di impiego per i cosiddetti “lavoratori socialmente utili” per i quali è difficile trovare collocazione e una modalità di utilizzo alternativa e più efficace dal punto di vista collettivo di parte degli attuali fondi per i sussidi di disoccupazione.

Infine, bisogna insistere sul trattamento dei rifiuti residui a valle della raccolta differenziata: attraverso un utilizzo esteso di tecnologie a basso impatto ambientale, come gli impianti di trattamento meccanico a freddo, è possibile separare ciò che è ancora potenzialmente differenziabile da ciò che non lo è, allo scopo di effettuare il recupero di ulteriori materiali e trasformare la parte organica in energia. Solo quando ha esaurito ogni opportunità di riutilizzo la frazione residuale di rifiuti deve essere trattata con processi innovativi di inertizzazione (pirolisi, dissociazione molecolare), caratterizzati da elevate capacità di compressione e quindi da un fortissimo abbattimento degli spazi necessari per lo stoccaggio; questi processi hanno inoltre il pregio di non provocare immissioni nocive nell’ambiente come fumi o gas di scarico e di azzerare il ricorso alle discariche.

Ripensare il ciclo dei rifiuti delle nostre società ci obbliga in definitiva a rivedere l’organizzazione attuale dei processi produttivi e di consumo, generando opportunità inedite di crescita e sviluppo per nuovi settori industriali che potranno essere colte, però, solo all’interno di un percorso virtuoso verso la sostenibilità ambientale dei sistemi economici e se le istituzioni, i cittadini e le imprese si impegneranno per un cambiamento culturale e di regole, che vada ben al di là delle logiche dell’emergenza.

 

 


[1] Delibera adottata in data 29 aprile 1992 dal Comitato interministeriale prezzi che stabiliva prezzi incentivati per l’energia prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e “assimilate”.
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