Politiche di contrasto alla povertà: il cammino intrapreso

Written by Maria Cecilia Guerra Wednesday, 14 May 2014 16:11 Print

Nonostante la crescita sempre più preoccupante della povertà, l’Italia è l’unico paese europeo in cui manchino misure efficaci per contrastarla. Una svolta importante si è avuta nel 2013 con l’elaborazione di un programma nazionale e universale di lotta all’indigenza denominato Sostegno all’inclusione attiva (SIA). Nonostante gli elementi di criticità emersi e le difficoltà di messa a punto delle procedure, i risultati della sperimentazione avviata sono incoraggianti e suggeriscono di non abbandonare il percorso intrapreso.

Povertà in crescita e politiche latitanti

Qualunque sia l’indicatore utilizzato per analizzarla, la povertà in Italia risulta essere alta rispetto alla media europea e, soprattutto, in costante crescita. Secondo gli ultimi dati Eurostat, il numero di individui a rischio di povertà o esclusione sociale nel nostro paese ha segnato, nel 2012, l’incremento maggiore all’interno dell’Unione europea, dal 28,2% del 2011 al 29,9%, secondo solo a quello registrato dalla Grecia; un livello superiore di circa cinque punti rispetto alla media europea. Delle tre dimensioni indagate dall’indicatore – rischio di povertà (reddito disponibile familiare equivalente inferiore al 60% del reddito mediano), grave deprivazione materiale (presenza di almeno quattro, su nove, sintomi di disagio, che riguardano, ad esempio, il non poter sostenere spese impreviste, l’avere arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti, il non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni), bassa intensità lavorativa (componenti di età compresa tra i 18 e i 59 anni che lavorano, complessivamente, meno del 20% del loro tempo di lavoro potenziale) – è quella relativa alla deprivazione materiale a subire i maggiori incrementi: dall’11,2 al 14,5%. Questo dato fa da pendant con quello fornito nell’estate scorsa dall’Istat, secondo cui le famiglie in povertà assoluta, nel 2012, erano 1.725.000 (il 6,8% delle famiglie residenti), per un totale di 4.814.000 individui (1,8% dell’intera popolazione), e l’aumento dell’incidenza della povertà assoluta tra il 2011 e il 2012 non solo è stato significativo (dal 5,2 al 6,8%) ma ha anche interessato tutte e tre le ripartizioni territoriali. A fronte di questa situazione allarmante, il nostro è l’unico paese dell’Europa a 15 che, assieme alla Grecia, non si sia ancora dotato di una misura nazionale, universale, di contrasto alla povertà che renda possibile a tutte le persone povere l’accesso a un paniere di beni ritenuto decoroso in relazione agli stili di vita prevalenti. Le misure nazionali, in larga parte insufficienti rispetto al bisogno, che sono state attivate nel tempo sono di natura categoriale: pensioni e assegno sociale per gli anziani poveri, assegno alle famiglie povere con almeno tre figli, a cui si potrebbe aggiungere anche la pensione di invalidità civile in quanto sostegno alle persone con disabilità soggetto però a una prova dei mezzi.

 

Il Sostegno all’inclusione attiva (SIA) Il 2013 ha segnato un punto importante di svolta nell’attenzione dedicata sia al disegno di un intervento a regime, sia all’individuazione di un percorso per la sua effettiva implementazione. Per quanto riguarda il disegno, un apposito gruppo di lavoro, istituito dal ministro Giovannini e che ho avuto l’onore di presiedere, ha individuato i tratti essenziali che, a regime, dovrebbero caratterizzare un programma di contrasto alla povertà, denominato Sostegno all’inclusione attiva (SIA).1 Deve, innanzitutto, trattarsi di un programma nazionale e universale: che riguardi, cioè, tutti coloro che si trovano in condizione di povertà, indipendentemente da dove risiedano o dal fatto che appartengano o meno a una determinata categoria. Questa scelta risponde sia a un fondamentale principio di equità (l’uguaglianza di fronte al bisogno), sia a un principio di efficienza (evitare una mobilità geografica verso le aree in cui vengono garantite, dagli enti decentrati, maggiori tutele). Il SIA deve essere indirizzato anche agli immigrati legalmente residenti, condizionatamente al soddisfacimento di un periodo, minimo, di residenza. L’ammontare del sostegno economico riconosciuto ai nuclei familiari poveri deve essere pari alla differenza tra l’ammontare di risorse economiche di cui essi dispongono e il costo di mercato di un paniere di consumo di beni e servizi che rappresenta la soglia di povertà presa a riferimento dalla misura e che deve essere articolato in relazione alla composizione del nucleo familiare e alle differenze territoriali nel costo della vita.

Il SIA non è solo un sussidio economico: è un programma di inserimento sociale e lavorativo. Il nucleo familiare che beneficia del trasferimento monetario è infatti chiamato a stipulare e rispettare un patto di inserimento con i servizi sociali degli enti locali come condizione per potere beneficiare dell’intervento. I servizi sociali, per parte loro, si impegnano a favorire con servizi di accompagnamento il processo di inclusione e di attivazione sociale di tutti i membri del nucleo. Si impegnano cioè, ad esempio, a promuovere, in collegamento con i centri per l’impiego, la partecipazione al mercato del lavoro degli adulti, anche attraverso esperienze formative e di riqualificazione professionale. Esigono, e controllano, ma a un tempo aiutano, in collegamento con le scuole e con il sistema sanitario, l’assolvimento da parte dei minori dell’obbligo scolastico e il rispetto dei protocolli delle visite sanitarie pediatriche.

Pur essendo la misura dedicata ai nuclei familiari, la dimensione individuale rappresenta quindi un elemento cruciale della personalizzazione dell’intervento al momento della definizione del contenuto del patto. Questa impostazione è ciò che distingue il SIA da altre misure, pure carenti nel nostro sistema, quali un reddito minimo condizionato esclusivamente all’attivazione al lavoro o sussidi di disoccupazione a natura assistenziale (non coperti da contribuzione). È una impostazione che richiede costi di apprendimento e implementazione non indifferenti, ma che è irrinunciabile se non ci si vuole limitare a sussidiare chi ha mezzi insufficienti e si vuole invece aiutare i nuclei familiari e le persone che li compongono a rimettersi su un terreno di autonomia. Si tratta di una tipologia di misura, affine in questo ai Conditional Cash Transfer sperimentati con successo in paesi in via di sviluppo, che fa propri i tre pilastri individuati come contestualmente necessari dalla strategia europea per l’inclusione attiva: il sostegno economico, la costruzione di mercati del lavoro inclusivi e l’offerta di servizi personalizzati. Un programma di questo tipo può comportare un costo a regime dell’ordine di circa sette miliardi. Se però si decide di coprire, almeno inizialmente, solo la metà della distanza tra i redditi dei nuclei familiari poveri e la soglia individuata di povertà, il costo si riduce a circa 1,5 miliardi.

 

Il percorso delineato

La somma necessaria a partire con una misura di tipo universale non è stata trovata con la legge di stabilità per il 2014. La via intrapresa, sostenuta anche da interventi normativi adottati dal Parlamento, è stata allora quella di procedere per passi successivi, estendendo progressivamente a tutto il paese la sperimentazione della nuova social card avviata sotto il governo Monti nelle dodici città con più di 250.000 abitanti, per poi ridurre, fino a eliminarli, gli aspetti di categorialità che, in ragione della limitatezza delle risorse a essa destinata, la contraddistinguono. La sperimentazione in parola nasce, infatti, con un budget di soli cinquanta milioni, ma è costruita secondo la medesima logica delineata per il SIA a regime. I Comuni coinvolti prendono in carico i nuclei familiari poveri e siglano con loro un piano, personalizzato, di inclusione attiva.

Dovendo individuare una sotto-platea rispetto a quella rappresentata dall’insieme dei nuclei poveri, si è scelto di rivolgersi, in primo luogo, a quelli che si trovino in condizioni economiche di estremo disagio (ISEE inferiore a 3000 euro e requisiti patrimoniali aggiuntivi molto stringenti) e nei quali siano presenti minori.

I dati Istat ci dicono infatti che sono proprio le famiglie con minori a presentare non solo l’incidenza più elevata di povertà assoluta ma anche gli incrementi più evidenti della stessa. E ciò non riguarda solo i nuclei con molti figli. Nelle famiglie con due figli minori, ad esempio, l’incidenza della povertà assoluta è quasi raddoppiata, passando dal 5,8 al 10%, tra il 2011 e il 2012. Dovendo poi limitare ulteriormente il numero dei potenziali beneficiari, ci si è rivolti non ai nuclei familiari in povertà cronica (mai entrati nel mercato del lavoro regolare) – che potrebbero essere tra i destinatari degli interventi a cui sarà rivolto il fondo europeo, cofinanziato, per gli indigenti (FEAD, Fund for European Aid to the Most Deprived), per l’istituzione e il rafforzamento del quale ci si è battuti in sede europea e che andrà anche a sostenere la filiera della distribuzione di alimenti e di altri beni materiali a favore delle figure fortemente marginali (come i senzatetto) – ma a quelli che, a causa della perdita del lavoro o della sua insufficienza, rischiano di cadere in questa cronicità.

Sono stati, quindi, individuati dei criteri volti a selezionare, come target, quei nuclei che non si siano allontanati da troppo tempo dal mercato del lavoro (in cui cioè almeno un componente abbia perso il lavoro negli ultimi tre anni) o che mantengano ancora un rapporto con esso, traendone però un reddito molto basso: inferiore a 4000 euro negli ultimi sei mesi. Qualora, in ragione della numerosità della platea così individuata, si rendesse necessaria una ulteriore selezione dei beneficiari, viene data la precedenza, secondo regole stabilite nei bandi, ai nuclei che siano in una o più delle seguenti condizioni: disagio abitativo, famiglia monogenitoriale o numerosa (tre o più figli) o con minori disabili, altre condizioni definite dal Comune d’intesa con il ministero del Lavoro e delle politiche sociali.

Attingendo sia al cofinanziamento dei fondi europei, sia agli stanziamenti previsti in legge di stabilità, la misura dovrebbe essere progressivamente estesa, dapprima a tutti i Comuni delle otto Regioni del Sud, e poi a tutto il territorio nazionale. Se dunque non si sono (ancora) create le condizioni per sostenere finanziariamente una misura universale, come deve essere il SIA, su tutto il territorio nazionale, il risultato importante è aver creato le condizioni per cui, a partire dal secondo semestre del 2014 e per tutto il 2015, sarà possibile realizzare e finanziare, per la prima volta in Italia, una misura nazionale di contrasto alla povertà, ispirata al principio dell’inclusione attiva, con cui si dovrebbero cimentare contemporaneamente tutte le amministrazioni locali, anche quelle che fino a ora non hanno avuto alcuna esperienza circa la presa in carico dei beneficiari di programmi sociali e la costruzione per essi di piani personalizzati. Il rafforzamento dei servizi di inclusione che devono accompagnare il trasferimento monetario, valorizzato nella programmazione regionale dei servizi, dovrebbe, in questo quadro, essere sostenuto dalla quota nazionale del Fondo sociale europeo destinata all’obiettivo di inclusione sociale per i prossimi sette anni.

 

I primi risultati e le prospettive future

I primi risultati della sperimentazione nelle dodici città hanno mostrato che il requisito utilizzato per individuare il disagio lavorativo si è rivelato molto, forse troppo, stringente rispetto all’obiettivo di budget prefissato. Molte famiglie in fase di impoverimento a seguito della perdita del lavoro hanno ancora condizioni patrimoniali o ISEE superiori alle soglie individuate dalla sperimentazione e risultano quindi escluse dal beneficio. Non è stato inoltre ancora possibile utilizzare il nuovo ISEE, che, attraverso l’istituto dell’ISEE corrente, permette di fotografare con più tempestività i cambiamenti nella condizione economica delle famiglie che possono derivare da eventi traumatici, quali, appunto, la perdita di lavoro. Un allentamento di questo requisito potrebbe essere utilmente sperimentato già a fronte della estensione della misura a tutte le Regioni del Sud.

La sperimentazione ha permesso di sottolineare un altro elemento: l’importanza della disciplina dei controlli. L’erogazione del beneficio è stata infatti condizionata al controllo preventivo delle informazioni autodichiarate, effettuato utilizzando i dati contenuti negli archivi amministrativi dell’INPS e dell’Agenzia delle entrate, oltre ovviamente a quelli in possesso degli stessi Comuni. Mettere a punto questo sistema è stato piuttosto difficile. L’interazione informatica tra Comuni e INPS ha conosciuto difficoltà tecniche e ha incontrato complessità che non erano state inizialmente previste. Ciò ha determinato ritardi e incomprensioni. Ma il sistema che è stato costruito, e che potrà essere utilizzato, con molta più fluidità, nelle fasi di estensione della sperimentazione, ha permesso di individuare un numero elevato di casi in cui l’autodichiarazione fornita dai richiedenti si è rivelata (per errore o per frode) falsa. Si tratta di un risultato di rilievo. Il nostro paese ha infatti conosciuto, in passato, proposte e sperimentazioni, su base territoriale, di misure di contrasto alla povertà che, proprio a fronte dell’inefficacia dei controlli, hanno comportato sforamenti nei budget previsti e sfiducia nei confronti di una misura percepita come iniqua.

Il rischio che ora si corre è che il percorso che si stava faticosamente costruendo venga abbandonato, non già, come sarebbe legittimo, perché non se ne condividano le finalità, ma perché non si capisce che misure di questo tipo richiedono una costruzione paziente, che faccia crescere le competenze delle amministrazioni decentrate e che aumenti la consapevolezza dei cittadini, per poter poi camminare su basi davvero solide. Se si dovesse scegliere di ripartire da capo, magari in ragione delle difficoltà che il cammino intrapreso ha, inevitabilmente, presentato, invece che impegnarsi a superarle e a meglio indirizzare il percorso, rischieremmo di trovarci nella stessa situazione in cui ci siamo trovati quando fu abbandonato il reddito minimo di inserimento – senza tenere conto del prezioso set di informazioni che dalla sua sperimentazione poteva essere ricavato – per annunciare un reddito di ultima istanza, ispirato a principi ben diversi da quelli dell’inclusione attiva, rimasto poi per dieci anni privo di ogni attuazione. I livelli di povertà raggiunti dal nostro paese ci dicono che questo proprio non ce lo possiamo permettere.

 


[1] Si veda il rapporto del gruppo di lavoro sul reddito minimo, Verso la costruzione di un istituto nazionale di contrasto alla povertà, disponibile su www.lavoro.gov.it/Priorita/Documents/Relazione_povert%C3%A0_18settembre2013.pdf

 

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