Editoriale. 2012: un mondo nuovo?

Written by Andrea Peruzy Monday, 28 March 2011 15:47 Print
Editoriale. 2012: un mondo nuovo? Illustrazione: Maurizio Santucci

Non sappiamo quali problemi di politica economica e internazionale affliggessero i Maya, e se quindi fra le possibili cause di una “fine del mondo” vista con i loro occhi potessero annoverarsi radicali mutamenti dello scenario geopolitico o dissesti finanziari su scala planetaria. È certo però che noi, a partire dall’autunno 2011 e per tutto il 2012, assisteremo a numerosi, importanti cambiamenti al vertice dei principali attori dello scenario mondiale; avvicendamenti di cui si possono intuire gli effetti su un contesto internazionale già di per sé segnato da profondi mutamenti.

 

Non sappiamo quali problemi di politica economica e internazionale affliggessero i Maya, e se quindi fra le possibili cause di una “fine del mondo” vista con i loro occhi potessero annoverarsi radicali mutamenti dello scenario geopolitico o dissesti finanziari su scala planetaria.

È certo però che noi, a partire dall’autunno 2011 e per tutto il 2012, assisteremo a numerosi, importanti cambiamenti al vertice dei principali attori dello scenario mondiale; avvicendamenti di cui si possono intuire gli effetti su un contesto internazionale già di per sé segnato da profondi mutamenti. Le proiezioni economiche internazionali al 2050 ci descrivono infatti un mondo molto diverso da quello che conosciamo: un mondo segnato da un nuovo ordine economico guidato dalla triade Stati Uniti-Cina-India, una leadership diversa da quella rappresentata dal triangolo economico Stati Uniti- Europa-Giappone che ricorreva nelle analisi di scenario degli anni Ottanta del Novecento. Secondo una stima pubblicata recentemente dalla società di consulenza finanziaria londinese PricewaterhouseCoopers, il G7 del 2050 sarà composto da Cina, India, Stati Uniti, Brasile, Giappone, Russia e Messico. Solo due dei membri attuali (USA e Giappone) manterranno la loro membership, mentre nessun paese europeo vi sarà rappresentato. Sarà questo il punto d’arrivo di un mutamento dei rapporti di forza fra le economie industrializzate e quelle, ancora impropriamente definite “emergenti”, dell’Asia e dell’America Latina che segnerà un profondo cambiamento nelle gerarchie internazionali. Si tratta di un mutamento che è già in atto e che, a meno di brusche inversioni di tendenza, subirà nei prossimi anni un’accelerazione tale da portare, secondo i dati del Carnegie Policy Outlook dell’aprile 2010, la quota di PIL di Brasile, India, Russia, Cina, Indonesia e Messico a pesare per il 50,6% del totale del G20, a fronte del 19,6% attuale; mentre, per converso, la quota di PIL dei paesi del G7 scenderà dal 72,3% attuale al 40,5%.

Sappiamo bene quanto questo tipo di previsioni possa rivelarsi fuorviante e quanto quelle fatte nel passato si siano dimostrate fallaci alla prova dei fatti. Ricordiamo i sorpassi previsti e mai avvenuti della Russia sugli Stati Uniti negli anni Settanta o di Germania e Giappone sempre sugli USA negli anni Ottanta. Non si possono però sottovalutare le tendenze in atto e trascurare le valutazioni di natura politica che esse comportano.

Dietro la freddezza di questi numeri si nasconde infatti un cambiamento politico fondamentale: dopo circa un secolo, gli Stati Uniti potrebbero vedersi costretti a cedere lo scettro di principale potenza economica mondiale alla Cina (un passaggio che molte stime concordano nel collocare a ridosso del 2030). Ciò significa che per la prima volta nella storia recente il paese più ricco e potente del mondo potrebbe non essere una democrazia. Segnerà questo avvicendamento la fine della capacità della democrazia occidentale di porsi come punto di riferimento per lo sviluppo economico e civile degli altri attori internazionali?

La risposta a questo interrogativo dipenderà in gran parte da come Stati Uniti ed Europa sapranno reagire alla crisi attuale e dalla loro capacità di ribaltare la tendenza al declino che molti prefigurano. Per questa ragione l’esito degli appuntamenti che ci attendono nel 2012 assume un’importanza cruciale. Nel 2012 la Cina sarà interessata da un avvicendamento alla guida del paese che riguarderà non solo le principali cariche dello Stato ma la sostituzione di gran parte dei membri del politburo.

È ormai quasi certo che Xi Jinping succederà a Hu Jintao alla carica di presidente e segretario del partito, mentre Li Keqiang subentrerà a Wen Jiabao come premier. Ci si può quindi chiedere se questo segnerà una frattura anche nelle principali traiettorie della politica economica e internazionale del gigante asiatico e in che termini tutto ciò potrebbe portare a un vero cambiamento. Il rischio rilevato da più parti è che l’omogeneità che contraddistingue la leadership cinese, la condivisione del medesimo background da parte di tutti i suoi membri, non solo renderà impercettibile il cambiamento, ma rischia di prolungare il persistere dei limiti già evidenziati dall’attuale leadership.

È un fatto che il prossimo presidente cinese sarà chiamato a giocare un ruolo di primissimo piano nello scacchiere internazionale, ancor più rilevante di quanto non sia stato per Hu Jintao.

Le autorità di Pechino sono riuscite abilmente e con grande pragmatismo a fare fronte alla crisi economica internazionale, dando così buona prova della loro capacità di reazione alle sfide globali; ciò non ci esime però dal chiederci se la nuova leadership cinese sarà all’altezza delle responsabilità che l’attendono in quanto prima potenza del pianeta o se invece si concentrerà sulla gestione e risoluzione delle sue gravi contraddizioni interne. È pur vero che essendo però la Cina in assoluto l’attore destinato a trarre maggior beneficio da uno scenario di business-as-usual, un avvicendamento nel segno della continuità potrebbe non necessariamente essere un male per il paese.

Negli Stati Uniti, invece, il presidente che uscirà vittorioso dalla competizione elettorale del novembre 2012, sia in caso di riconferma di Obama sia che avvenga il contrario, si troverà a dover contrastare questa tendenza “declinista” a cui gli Stati Uniti non sono nuovi, ma a cui – come sottolineato recentemente da Joseph Nye su “Foreign Affairs” – hanno saputo reagire con prontezza tutte le volte, investendo massicciamente nei settori d’avanguardia e restituendo così competitività alla loro economia.

Washington, del resto, detiene ancora il primato nei settori più innovativi dell’economia – l’information technology, le biotecnologie e le nanotecnologie – e, con i suoi 369 miliardi di investimenti per il 2007, mantiene un ruolo di leadership negli investimenti in ricerca e sviluppo oltre che la supremazia in campo militare e finanziario. Certo, in questo frangente l’ipotesi di un ampio piano di investimenti in R&D dovrà scontrarsi con il grosso limite rappresentato da un debito pubblico che a livello federale ha sfondato i 14.000 miliardi di dollari e che, secondo le stime del Congressional Budget Office, raggiungerà quota 100% del PIL entro il 2023.

Di quale sia la minaccia che si nasconde dietro questo incremento del debito pubblico è ben consapevole la leadership americana e non è un caso che il capo delle forze armate statunitensi, l’ammiraglio Mike Mullen, abbia più volte individuato nel debito pubblico il principale pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti. Gran parte di questo debito, fra l’altro, è detenuto da quelle potenze emergenti, Cina in primo luogo, che si candidano a subentrare agli USA al vertice della gerarchia economica mondiale.

Il 2012 rappresenterà anche dal punto di vista del collocamento del debito un momento di grande incertezza. Nel 2012 il Tesoro americano dovrà infatti emettere titoli di Stato per quasi 2000 miliardi di dollari per finanziare il fabbisogno corrente e rifinanziare quello venuto a scadenza. Il quadro diventa ancor più complesso se consideriamo che questa massiccia emissione di debito si sommerà alla contemporanea scadenza di titoli di Stato, obbligazioni di aziende solide e “titoli spazzatura” per un valore complessivo pari a otto volte quello che i mercati assorbono annualmente (nel 2012 scadranno junk bond per 155 miliardi di dollari e poi 212 miliardi nel 2013 e 338 miliardi nel 2014). E poi c’è l’Europa, che fra la fine del 2011 e quella del 2012 sarà interessata da alcuni importanti appuntamenti elettorali in Francia e in Spagna, ma, soprattutto, dalla successione a Jean-Claude Trichet alla guida della Banca centrale europea. In questa partita, che dopo il ritiro dalla corsa del candidato tedesco Axel Weber vede in pole position Mario Draghi, si giocano il futuro dell’economia del continente e le linee strategiche di politica economica e monetaria – più spiccatamente tedesche o magari “mediterranee” – dell’Unione europea di domani. Da queste scelte dipenderà in gran parte il futuro ruolo dell’Unione europea nel sistema economico del XXI secolo. Come osservato all’inizio, infatti, i trend di crescita attuali delle economie europee, se confermati anche per i prossimi decenni, provocheranno l’uscita dei paesi europei dal G7 del 2050. Alcune recenti previsioni stimano che Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia cresceranno a un tasso medio dell’1,5% l’anno da ora al 2050 e la loro quota sul PIL del G20 passerà dal 24% attuale al 10% nel 2050. Se agissero insieme, però, i paesi membri dell’UE, pur crescendo a un tasso dell’1,5%, si posizionerebbero anche nel 2050 fra le prime tre economie del globo; operando separatamente, invece, Germania, Gran Bretagna e Francia sarebbero sorpassate da Cina, India, Brasile, Russia, Messico e Indonesia.

Ancora una volta, l’unica possibilità che gli europei hanno di salvarsi dal rischio dell’irrilevanza politica ed economica è data dall’azione unitaria, dalla capacità che avranno, anche dal punto di vista economico, di “parlare con una voce sola”. È questo però, purtroppo, un auspicio sempre più lontano dalla prassi politica quotidiana, che vede invece un’Europa sempre più frantumata in differenti orientamenti di politica internazionale, in diverse forme di governo, con politiche fiscali anche contrastanti, un’unione monetaria che alcuni subiscono con insofferenza, con atteggiamenti discordanti rispetto alle grandi sfide impreviste (non ultima quella migratoria degli ultimi giorni). Non è però solo un’Europa istituzionalmente e politicamente disomogenea quella che abbiamo di fronte. È soprattutto, purtroppo, un continente afflitto da disuguaglianze sociali intollerabili, che la crisi ha purtroppo accentuato. In termini più generali è aumentata, nei paesi dell’OCSE, la disparità tra redditi da lavoro – soprattutto lavoro dipendente – e redditi da capitale.

Mentre grazie al boom dei paesi emergenti si veniva attenuando la tradizionale disuguaglianza fra Nord e Sud del globo, fra le ricche democrazie industrializzate occidentali e il “resto del mondo”, si venivano ampliando le disparità all’interno dei singoli paesi.

Secondo Robert Lieberman della Columbia University «la quota di reddito nazionale USA che va all’1% della popolazione più ricca era l’8% del totale negli anni Sessanta, oggi supera il 20%». Un recente studio dell’OCSE rivela inoltre che Stati Uniti e Italia, Germania e Gran Bretagna condividono uno stesso trend di sviluppo sociale e porta a concludere che «dalla metà degli anni Ottanta ad oggi, la crescita della fascia al vertice della piramide (sociale), è stata due volte superiore a quella del resto della popolazione. In termini di allargamento delle diseguaglianze, le nazioni occidentali si sono omologate a India, Cina, Indonesia».

Confrontarsi con il disagio sociale provocato dall’accrescersi delle disuguaglianze economiche è un compito primario della politica, al quale la sinistra progressista non può sottrarsi e che, oltretutto, la riporterebbe a perseguire un aspetto significativo della sua vocazione originaria. Certo il contesto è ora radicalmente mutato e tutto appare più difficile. Non solo la globalizzazione ingigantisce e rende difficilmente gestibili fenomeni di dimensioni planetarie, ma si intreccia con lo spaesamento provocato dal tramonto di una cultura che aveva indotto miliardi di persone a ritenere che gli eventi marciassero in una direzione predeterminata, dalla sensazione di essere di fronte alla fine della Storia e delle grandi ideologie che ne interpretavano il significato e restituivano così una dimensione collettiva alle vicende e alle attese dei singoli.

Siamo abituati a pensare la globalizzazione come un fenomeno prevalentemente riconducibile a una dimensione economico-finanziaria, tralasciando di considerare le ricadute che ha avuto sulle abitudini dell’individuo, sempre più costretto in una dimensione che potremmo definire di solitudine. Solitudine accentuata da quella diffusione capillare delle tecnologie della comunicazione che è al tempo stesso causa ed effetto della globalizzazione.

Tutto ciò fa sì che progressivamente si perda – come sottolinea Remo Bodei – «la capacità di pensare a un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private». Questa concentrazione sulla sfera privata e sul presente comporta però «la desertificazione del futuro e rischia di creare una mentalità opportunistica e predatoria».

Per contrastare questa deriva crediamo sia necessario recuperare un senso di solidarietà sociale, e fondare su questo politiche che mirino a “includere” chi è rimasto indietro, chi è oggi escluso dal godimento dei benefici del benessere: e non parliamo di pochi “ultimi”, ma di ampie fette di lavoratori e di una classe media che si sta progressivamente impoverendo. In quest’azione di lotta alle disuguaglianze e di contrasto agli effetti negativi della globalizzazione i governi dovranno svolgere un ruolo primario.

Contrariamente a quanto prospettato fino a pochi anni fa da molti economisti e politici di scuola neoliberista, la globalizzazione non ha svolto un ruolo stabilizzatore; al contrario ha reso più frequenti e intense le fasi di incertezza e conflittualità, con cui dobbiamo abituarci a convivere. Se è vero che «una crisi è una cosa terribile da sprecare», questo può essere il momento giusto per superare un approccio di politica economica sbagliato, che penalizza i redditi da lavoro e il potere d’acquisto del ceto medio. Sarebbe questo un modo intelligente non solo di perseguire una maggiore equità sociale, ma anche di rilanciare la domanda interna di una realtà economica che, a livello europeo, conta 450 milioni di consumatori e milioni di imprese. Un modo intelligente e socialmente giusto per provare a rilanciare la crescita del continente e contribuire così a invertire una tendenza declinista che, come dicevamo all’inizio, vede la vecchia Europa declassata a potenza “minore” del XXI secolo.

Acquista la rivista

Abbonati alla rivista