Uscire dalla crisi “alla tedesca”

Written by Beda Romano Monday, 28 February 2011 18:13 Print
Uscire dalla crisi “alla tedesca” Foto: Marcel Burger

Troppo spesso il recente successo economico della Germania viene attribuito al mondo imprenditoriale e agli sforzi di molte società per tornare competitive. Dietro alla ripresa di questi mesi si nasconde anche la mano della politica economica, mai abbandonata neppure negli anni del liberalismo alla Reagan o alla Thatcher. Pregi e rischi della Ordnungspolitik. Beda Romano  per la rubrica "Il futuro della Germania in Europa", in cui compaiono anche i contributi di Giuliano Amato, Silvio Fagiolo, Ulrike Guérot, Ronny Mazzocchi.



Berlino ha ospitato nell’autunno scorso una bella mostra. Non mi riferisco a quella su Adolf Hitler, al Deutsches Historisches Museum sulla Unter den Linden, di cui i giornali hanno parlato molto, ma a un’esposizione tutta dedicata ai successi scientifici della capitale prussiana. Nel 2010 Berlino ha festeggiato i trecento anni del grande ospedale Charité, voluto da Federico I, i duecento anni della Humboldt- Universität e i cento anni della Kaiser-Wilhelm- Gesellschaft, fondata da Guglielmo II. Le tre istituzioni ebbero un ruolo decisivo nella rivoluzione industriale tedesca e nella diffusione della cultura scientifica in Prussia prima e in Germania dopo. Tra le altre cose, la mostra al Martin-Gropius-Bau raccontava di come a indurre Federico Gugliemo III a fondare la Humboldt-Universität furono le sconfitte dell’esercito prussiano contro Napoleone nel 1806. Sconvolto dalle disfatte sul campo, il sovrano decise che «lo Stato» doveva «sostituire con delle forze intellettuali quanto» aveva «perso in forze fisiche». Nacque quindi un ateneo che diverrà negli anni uno dei centri più rinomati della ricerca tedesca. Le mostre in Germania non servono solo a celebrare un anniversario storico o a ricordare una persona celebre: sono anche lo specchio del modo in cui il paese guarda al passato per meglio proiettarsi nel futuro. Oltre a mettere l’accento sulle grandi istituzioni scientifiche della capitale, l’esposizione berlinese ha ricordato il ruolo della politica nel sostenere e indirizzare la crescita economica negli ultimi tre secoli di storia tedesca. Il merito della grande rivoluzione industriale tedesca non va solo ai Benz e ai Planck, agli Stinnes e ai Röntgen, ma anche agli Hohenzollern e ai Bismarck, ai Rathenau e ai Caprivi. A sorpresa la lezione è straordinariamente moderna e spiega per molti versi il successo economico della Repubblica federale in questi ultimi mesi. Mentre negli ultimi decenni molti paesi in Europa e altrove hanno affidato al mercato le redini dell’economia, la Germania ha continuato in questi anni ad attribuire alla mano pubblica un ruolo decisivo nel promuovere la crescita e guidare il paese.

Le cifre hanno il merito della chiarezza. Secondo le prime stime della banca centrale tedesca, la Germania dovrebbe essere cresciuta del 3,6% nel 2010. La ripresa è netta dopo un 2009 nel quale l’economia aveva subito un tracollo impressionante, del 4,7%. Il paese ha subìto più di altri la brusca frenata del commercio internazionale dopo il drammatico fallimento della banca d’investimento Lehman Brothers alla fine del 2008. In Europa pochi altri Stati membri sono stati così penalizzati dalla recessione mondiale provocata dallo sconquasso finanziario. Il recupero del 2010 non compensa il crollo dell’anno precedente, ma rimane significativo, per molti versi dettato dalle esportazioni nei paesi emergenti in piena modernizzazione. La disoccupazione è ormai ai minimi dal 1990. Le regioni della Germania Est continuano a essere in ritardo rispetto ai Länder occidentali, ma hanno fatto grandi progressi a vent’anni dall’unificazione. La brutta recessione del 2009 sembra archiviata e la Germania appare tornata sul sentiero di crescita sostenuta sul quale si era avviata nella seconda metà dello scorso decennio, dopo un lungo periodo di stagnazione a cavallo del 2000. Se oggi il paese è in una situazione migliore rispetto ai suoi vicini europei le ragioni sono da ricercare non tanto, o non solo, nelle misure d’emergenza che il governo democristiano-liberale del Cancelliere Angela Merkel ha preso negli ultimi mesi, ma piuttosto in una politica economica di lungo respiro che va oltre le differenze tra le maggioranze al potere.

La nuova competitività tedesca è prima di tutto il risultato di uno straordinario sforzo delle parti sociali. La Germania è entrata nell’Unione monetaria sfiancata da una unificazione costosa e da un marco sopravvalutato. Tra il 1977 e il 1997 la produttività nel settore dei beni commerciabili era salita del 3,2% all’anno a fronte di un aumento dei salari orari a livello reale del 4,2%. Durante il cancellierato di Gerhard Schröder imprese e sindacati hanno ridotto i costi, introdotto tagli ai salari reali, modificato radicalmente la gestione quotidiana di molte imprese. Dal canto suo il governo socialdemocratico-verde ha creato nuovi contratti a tempo determinato e rivisto le regole di un welfare State troppo generoso, imponendo tra le altre cose ai disoccupati di accettare offerte di lavoro piuttosto che vivere alle spalle dello Stato. Il merito del governo Schröder non è stato solo quello di introdurre cambiamenti notevoli nel Vater Staat, ma anche di avere appoggiato se non addirittura esortato la cura dimagrante delle imprese. Questa scelta coraggiosa ha creato malumore e contribuito alla nascita di Die Linke, un partito della sinistra radicale, e alla sconfitta del Cancelliere socialdemocratico nelle elezioni del 2005, ma oggi consente al paese di raccogliere frutti impensabili fino a qualche mese fa. Costanza, pazienza e tenacia hanno ridato competitività ai prodotti tedeschi nel mondo. Tornano alla mente i versi del romanziere realista con radici romantiche Theodor Fontane, che alla fine dell’Ottocento scriveva: «Erst der Ernst macht den Mann, Erst der Fleiss das Genie» (Solo la serietà fa l’uomo, solo l’applicazione fa il genio).

La Germania è sempre stata sin dalla fine dell’Ottocento un grande paese esportatore. La stessa idea di un marchio “made in Germany” ha una storia sorprendente. In Gran Bretagna il Merchandise Marks Act del 1887 impose ai prodotti stranieri di dichiarare la loro origine. L’obiettivo protezionistico era di segnalare agli inglesi la merce tedesca o comunque straniera perché non l’acquistassero, privilegiando la produzione nazionale. Avvenne esattamente il contrario: i prodotti tedeschi erano di valore così elevato che l’etichetta “made in Germany” divenne sinonimo di qualità. Questo vale anche oggi. La Germania ha visto prima di altri paesi le possibilità offerte dalla progressiva modernizzazione dei paesi emergenti. Piccole e grandi aziende hanno aperto uffici di rappresentanza, filiali commerciali e stabilimenti produttivi in ogni angolo del mondo. Le esportazioni tedesche sono straordinariamente cresciute in questo ultimo quinquennio, e dovrebbero superare i mille miliardi di euro nel 2011. Secondo l’Institut der deutschen Wirtschaft Köln, un centro studi di Colonia, l’export verso i paesi emergenti, pari ormai al 20% del totale, è salito tra il 2000 e il 2007 del 118% in valore, quando l’export verso i paesi industrializzati è aumentato del 46%. Mentre il governo sudafricano nella primavera del 2010 ultimava la preparazione dei campionati di calcio dell’estate scorsa, le associazioni imprenditoriali tedesche già guardavano ai Mondiali del 2014 e alle Olimpiadi del 2016 in Brasile, firmando accordi e intese nel paese sudamericano. Ancora una volta lo sforzo è stato collettivo. Accanto alla delocalizzazione delle imprese, il governo ha fatto la sua parte, moltiplicando gli accordi tra università tedesche e università straniere che hanno permesso a molti atenei di aprire facoltà, corsi di studio o semplici centri di ricerca in giro per il mondo – da Amman al Cairo, da Curitiba a Shanghai – con l’obiettivo di formare la classe dirigente locale e assicurarsi una manodopera preparata a gestire le filiali o gli impianti tedeschi. Nella sola Cina le istituzioni culturali tedesche hanno firmato oltre 530 accordi scientifici. In Germania gli studenti cinesi che studiano nelle università locali sono circa 23.000. Non è tutto. In quanti altri paesi il ministro dei Trasporti si reca a Ulan Bator per assicurare l’approvvigionamento di materie prime delle imprese nazionali, quello dell’Economia vola a Ottawa per studiare il sistema locale di immigrazione a punti dei lavoratori qualificati e il ministro della Difesa visita Pechino per parlare di cooperazione militare nella lotta contro i pirati somali, una minaccia per le navi cargo provenienti dalla Germania e dirette in Asia?

La proiezione internazionale dell’economia tedesca è ormai diventata fonte di un nuovo orgoglio nazionale. Chiedere che la Germania riduca il suo export per contribuire al riassorbimento degli squilibri globali è ingenuo, e forse anche arrogante. Da un lato lo sforzo tedesco sul fronte delle esportazioni è un modo per compensare una domanda interna relativamente debole anche a causa del graduale invecchiamento della popolazione. Dall’altro, il paese è giustamente fiero di avere i conti pubblici in ordine e un limitato tasso d’indebitamento privato, quando molti altri paesi occidentali sono oberati dai debiti. Nello stesso modo in cui nella favola di La Fontaine la formica preferisce prepararsi all’inverno piuttosto che cantare a squarciagola come la cicala, i tedeschi hanno dimostrato di avere lo sguardo lungo. Mentre per molti europei vale il carpe diem dei romani, i tedeschi si preoccupano del domani. Dice Mefistofele nel “Faust” di Goethe: «Das erste steht uns frei, beim zweiten sind wir Knechte», che tradotto liberamente significa: solo il primo passo è libero; del secondo si è schiavi. Più in generale, il tedesco è convinto che il futuro non sia necessariamente in grembo a Giove; è piuttosto uno spazio temporale che può essere modellato a fronte di un presente che è inevitabilmente sfuggente e inafferrabile. Sembrerà strano a prima vista, ma la stessa cultura della stabilità è il riflesso di questa particolarità tutta tedesca. Troppo spesso si fa risalire la paura dell’inflazione, così radicata nell’anima di questo paese, ai tempi della Repubblica di Weimar, all’indomani della prima guerra mondiale, quando la moneta nazionale si svalutò fino a costringere la gente ad andare a fare la spesa con una carriola di banconote. Ma se i tedeschi credono nella cultura della stabilità non è tanto, o non è solo, perché hanno paura dell’iperinflazione e di perdere all’improvviso i propri risparmi. Dal loro punto di vista, la stabilità monetaria è un ingrediente indispensabile per preparare il futuro. Come è possibile lanciarsi in una nuova iniziativa imprenditoriale, organizzare gli studi universitari dei figli, pianificare il pagamento delle rate di un mutuo immobiliare senza avere, se non la certezza, almeno la fiducia che il valore del denaro verrà salvaguardato? In questo contesto, la classe politica ha avuto un ruolo decisivo in questi anni. Non solo si è autoimposta limiti costituzionali all’indebitamento pubblico, ma ha anche elevato l’età pensionabile da 65 a 67 anni, quando molti paesi europei appaiono su questo fronte drammaticamente incuranti del futuro.

Il quadro ottimista emerso dai dati economici negli ultimi trimestri non deve fare dimenticare le debolezze intrinseche della Germania: le mancate liberalizzazioni in alcuni mercati, l’invecchiamento della popolazione, una domanda interna altalenante, un welfare State che probabilmente rimane troppo costoso. Eppure la Germania sta affrontando il presente con maggiore serenità rispetto ai suoi vicini. Il segreto è in un paese che ha continuato a credere alla politica economica, convinto, tra le altre cose, che un basso indebitamento dello Stato offra in fin dei conti maggiore libertà di manovra nel favorire l’economia di quanto non faccia una politica finanziaria sciupona e di breve termine. Dalla fine della guerra il ruolo della mano pubblica è retto nella Repubblica federale dalla Ordnungspolitik. Questa tradizione intellettuale nata negli anni Venti prevede che lo Stato debba garantire il libero mercato, senza interferire nei rapporti di forza dell’economia o creare distorsioni, ma dando comunque chiare linee direttrici. Messa a confronto con la Zwangs - wirtschaft, l’economia di comando di tradizione prussiana o nazista, la Ordnungspolitik appare naturalmente di stampo liberale. La storia però non è mai lineare; è un gioco di specchi dove tutto è relativo. Oggi, dopo l’ondata trentennale di liberalismo voluta da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, la stessa Ordnungspolitik rivela all’improvviso il ruolo dello Stato nell’economia, con i suoi molti pregi, come dimostra la ripresa congiunturale, ma anche con alcuni suoi eccessi. Tra le altre cose, la stessa crisi economica ha mostrato al mondo la vera natura del sistema bancario tedesco: dominato dalla mano pubblica, sorvegliato da un sistema di vigilanza troppo politicizzato, e oggi indebolito dallo sconquasso finanziario. Ha ragione chi si interroga a questo punto sul futuro della Ordnungspolitik e si chiede, in un momento in cui l’Unione europea è attraversata da crisi economiche e tentazioni nazionalistiche, quanto forte sia il rischio di protezionismo nella Repubblica federale. Dopotutto, come non ricordare che la mano pubblica federale o regionale controlla la casa automobilistica Volkswagen, limita la concorrenza in molti mercati, controlla una parte consistente del credito? In questo delicato frangente, la politica economica “alla tedesca” potrebbe rivelarsi al tempo stesso la ragione del successo della Germania, ma anche paradossalmente una possibile minaccia per il futuro del mercato unico europeo.

 


Foto di Marcel Burger
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