Parole a senso unico: monologhi e soliloqui tra I, me and myself

Written by Michela Marzano Monday, 14 January 2013 14:32 Print

La società attuale è sommersa dalle parole. Si tratta, però, di parole a senso unico, che non vengono utilizzate per costruire un dialogo: molto spesso chi parla è interessato soltanto a convincere e condizionare l’ascoltatore, senza avviare un reale confronto critico anche verso se stesso e le proprie idee. E la mancanza di dialogo è molto pericolosa, perché impedisce alla verità di circolare e permette che la violenza si diffonda senza opposizione.

Epoca di monologhi e soliloqui, la nostra! In cui ci piace tanto metterci in scena e ascoltarci, senza porci il problema di sapere se anche gli altri ci stanno ascoltando e se possono contribuire alla conversazione. Tutto accade tra I, me and myself, per utilizzare la celebre formula di Salinger. Poiché, come spiegava già negli anni Ottanta il filosofo francese Gilles Deleuze, una delle caratteristiche delle società occidentali contemporanee è quella di escludere l’alterità, comportandosi come se gli altri non esistessero. Perché stupirsi allora di fronte all’assenza di un dialogo sociale o politico? Non si tratta forse del sintomo di una società incapace di autocritica?

Forse il problema della comunicazione contemporanea (che si tratti della comunicazione politica, di quella economico-sociale o anche di quella culturale) risiede proprio in questa incapacità sempre più diffusa di dialogare. Perché dialogare significa confrontarsi con gli altri, rimettersi in discussione, talvolta anche cambiare idea dopo aver ascoltato punti di vista diversi dal nostro. Ma, affinché questo lavoro di confronto possa iniziare, bisognerebbe essere capaci di accettare l’esistenza di uno o più interlocutori. Bisognerebbe accettare che talvolta la realtà è molto più complessa di quanto si pensi e che, per interpretarla (o anche solo decriptarla), si devono integrare diversi ordini di conoscenza.

Negoziare, mediare, comunicare. L’arte della conversazione è molteplice e complessa. Soprattutto quando non ci si limita a seguire le regole dell’agire retorico e si cerca veramente di mettere “in comune” quanto si ha da dire. Soprattutto quando si desidera arrivare a un accordo, senza per questo ignorare l’esistenza dei potenziali conflitti. Quando si cerca di dialogare veramente, si alimenta lo scambio e la discussione. Il che presume, ovviamente, una forma di alternanza nello scambio dei messaggi, per arrivare a stabilire una relazione sulla base di punti di accordo e disaccordo. Come spiega Montaigne nel capitolo VIII dei “Saggi”, “Dell’arte di conversare”, il dialogo si nutre delle opinioni degli uni e degli altri, permettendo ai vari interlocutori di esercitare immaginazione e fantasia: «Il più naturale esercizio del nostro spirito è secondo me la conversazione. Ne trovo la pratica più dolce che di alcun’altra azione della nostra vita. (…) Se io converso con un’anima forte e un forte giostratore, egli mi spinge ai fianchi, mi punge a sinistra e a destra, le sue idee danno slancio alle mie».1 In un senso simile, La Rochefoucauld faceva notare che una conversazione è stimolante solo quando, evitando la compiacenza, si è capaci di ascoltare veramente il proprio interlocutore: «Ciò che rende molte persone sgradevoli in una conversazione è il fatto che ognuno pensa a ciò che ha in animo di dire più che a quello che altri dicono».2

Affinché un dialogo sia fecondo, è necessario saper ascoltare. Ma è anche importante capire quello che ci viene detto, per poi discuterlo e sollevare eventualmente delle obiezioni. Nel momento in cui si accetta di dialogare, infatti, si accetta anche la possibilità di modificare il proprio punto di vista e di rimettere in discussione le proprie certezze. Non si tratta di cedere al fascino del relativismo, secondo cui non esiste alcuna verità oggettiva. Si tratta solo di accettare il fatto che la verità non è monolitica e che, talvolta, basta analizzare un problema cambiando prospettiva per rendersi conto che anche il punto di vista altrui può essere interessante. Il dialogo non è solo l’antitesi del monologo. È anche l’opposto della manipolazione e della retorica sofistica. Ciò che conta non è tanto il risultato – mostrare a un’altra persona che si ha o meno ragione – ma la dinamica stessa che rende possibile la conversazione, ossia il desiderio di uscire dall’antagonismo per arrivare a determinare soluzioni comuni.

La manipolazione esiste da sempre. Come già osservava Platone, esistono due generi di discorsi: quelli che hanno come obiettivo di far avanzare la conoscenza e quelli che mirano solo a ottenere un certo numero di benefici. I discorsi che cercano di procedere lungo il cammino della conoscenza sono spesso dialogici (non è un caso che Platone abbia scelto proprio il dialogo come genere letterario attraverso cui trasmettere la propria filosofi a). Gli altri, appannaggio dei retori e dei sofisti, sono anti-dialogici e utilizzano argomenti fallaci per rendere indiscutibili le proprie posizioni. Solo che nel passato, a differenza di oggi, l’utilizzo dei sofismi era considerato una pratica deplorevole. E il dialogo non era solo uno strumento per far avanzare la conoscenza, ma anche un mezzo per consolidare la democrazia.

L’atteggiamento che oggi si ha nei confronti del dialogo è molto più ambivalente. Ciò che si dice, talvolta, conta poco. Basta dirlo con determinazione e sicurezza. In modo da impedire a chicchessia di mettere in dubbio quello che ha appena ascoltato. Tanto più che, molto spesso, si tratta di “messaggi a senso unico”. Si “comunica a”. E così facendo si riduce il processo comunicativo alla sua fase di “diffusione”: colui che parla invia il messaggio a un destinatario che non ha la possibilità, né materiale né simbolica, di rispondere.

Non si tratta più, dunque, di mettere in comune o di condividere il contenuto di un’informazione, ma di avere l’ultima parola (ne sono un esempio eloquente quasi tutti i nostri talk show, nei quali non solo il dialogo è completamente assente, ma i vari interlocutori finiscono in generale di dibattere senza aver modificato, nemmeno di una virgola, le proprie convinzioni). Tanto più che, molto spesso, i messaggi trasmessi non cercano nemmeno di informare, ma intendono piuttosto esercitare un’azione diretta su soggetti la cui condizione li riduce a meri riceventi: semplici spettatori, persone in difficoltà in cerca di soluzioni per i propri problemi, lavoratori che vorrebbero mantenere il proprio posto di lavoro, giovani precari o esodati senza più alcuna speranza. In ogni caso, si tratta di “far credere”, “far pensare”, “far agire”, alterando le difese naturali dei destinatari. Anche se, così facendo, i legami individuali sono snaturati e ridotti a relazioni puramente utilitaristiche.

Parlare, ormai lo sappiamo bene, significa “agire”. Ce lo hanno spiegato con chiarezza e rigore John Austin e John Searle, filosofi del linguaggio ordinario. Ogni volta che ci rivolgiamo a qualcuno, non stiamo semplicemente dicendo qualcosa, ma stiamo anche facendo qualcosa: parlare è un atto (più precisamente, un atto linguistico) e, come ogni atto, può essere esaminato e classificato a seconda del suo scopo: informare, biasimare, consigliare, ironizzare, commuovere, rassicurare, decidere ecc. È proprio l’identificazione dello scopo dell’atto linguistico che consente, d’altronde, all’ascoltatore di interpretare in modo corretto il messaggio trasmesso, al di là della comprensione del suo contenuto semantico.

Il problema di tante conversazioni contemporanee – soprattutto quando si tratta della retorica politica, che è sempre più monologica e sempre meno dialogica – è la presenza ossessiva di un unico scopo: “far agire”. L’uso della parola non serve a favorire l’atto della mediazione o della negoziazione, al fine di “costruire insieme” uno spazio dialogico dove poi possano emergere soluzioni comuni. Le parole servono solo a modificare il comportamento degli ascoltatori-elettori, attraverso processi più di persuasione che argomentativi. Con i loro “ornamenti retorici” (per dire ad alta voce quello che in tanti sembrano pensare) e i loro “giri di parole” (per non dire, in fondo, niente delle misure concrete che si hanno in mente per trasformare la società), i soliloqui della politica contemporanea riescono a far credere che il trionfo della forma sia garanzia di correttezza. Fino a confondere le carte e rimpiazzare l’etica con l’estetica. Ma cosa resta della verità, di fronte a questa dissimulata violenza della retorica contemporanea?

Pascal, nelle “Provinciali”, spiegava che la violenza e la verità non hanno alcun potere l’una sull’altra. Perché tutti gli sforzi della violenza non riescono a indebolire la verità, anzi non fanno altro che renderla più forte. Forse Pascal, però, non immaginava la possibilità di una società senza dialogo e, quindi, capace di impedire alla verità di circolare. Non perché ci sia un divieto di parola. Semplicemente perché, sempre di più, le parole sono a senso unico.

 


[1] M. de Montaigne, Saggi, Mondadori, Milano 1986, pp. 152-53.
[2] F. de La Rochefoucauld, Massime. Rifl essioni varie e autoritratto, Rizzoli, Milano 2001, p. 234.

 

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