I nuovi equilibri della politica indiana

Written by Sandro Gozi Monday, 24 January 2011 13:40 Print
I nuovi equilibri della politica indiana Illustrazione: Umberto Mischi

L’India è chiamata oggi a raccogliere le sfide poste dallo sviluppo e ad affrontare, di conseguenza, le grandi disparità economiche e sociali che la caratterizzano. Se dal punto di vista della politica estera la sua crescita è appoggiata dagli Stati Uniti, in politica interna risulta essere vincente l’approccio inclusivo del Partito del Congresso, che mira a creare un nuovo equilibrio tra l’India rurale e l’India all’avanguardia dei nuovi processi globali.

Negli ultimi anni la riscoperta della geopolitica ha portato ad accentuare in maniera quasi esclusiva i fattori materiali come misuratori della potenza dei diversi paesi (dagli armamenti alle pipelines, dall’acqua alle tecnologie). Eppure le nazioni, come gli uomini, non vivono di solo pane; i fattori emotivi sono stati completamente tralasciati da queste analisi, ma le aspirazioni, i sentimenti collettivi, la Weltanschauung dei popoli sono una forza potentissima che non si può non considerare. In questo senso la pubblicazione da parte di Dominique Moïsi de “Geopolitica delle emozioni”1 è un primo tentativo di colmare tale lacuna. Lo studioso francese suddivide il mondo in tre macroaree, dominate da altrettante emozioni: la paura per l’Occidente, il rancore per il mondo islamico e la speranza per l’Asia.
Tra i paesi asiatici, la speranza pare ormai essere diventata il tratto distintivo dell’India: una nazione giovane, democratica, libera, in grado di padroneggiare le tecnologie del XXI secolo, caratterizzata da una crescita economica effervescente che sente di avere a portata di mano la conquista di un futuro migliore e di un ruolo di primissimo piano a livello internazionale. Un destino che pare scritto nei numeri della demografia, nei primati dell’ICT (Information and Communication Technology) e della ricerca scientifica, nonché nel suo miracolo democratico e nella caparbietà delle sue conquiste nucleari.
Le emozioni sono una forza possente, ma anche estremamente mutevole ed è per questo che spesso la speranza rischia di trasformarsi in ansia: ansia di futuro. In altre parole, si potrebbe dire che Nuova Delhi ha bisogno di costanti rassicurazioni circa la reale possibilità di raggiungere gli obiettivi che la sua speranza nel futuro le pone. Rassicurazioni da parte di chi? Per avere una risposta basti pensare all’ondata di gioia che ha attraversato il paese quando, di fronte al Parlamento indiano, Obama si è formalmente impegnato a sostenere l’India per la conquista di un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Questo episodio indica in maniera piuttosto chiara come Nuova Delhi percepisca la politica estera come parte della politica interna; per l’India, infatti, la “via di Washington” è il percorso più rapido per poter continuare a far crescere la sua macchina economica (si consideri che oltre il 53% del PIL viene dal terziario) e per uscire dall’isolamento quasi completo in cui il paese versava fino a pochissimi anni fa; questo isolamento era dovuto in parte all’“apartheid nucleare” (nel quale l’India era stata relegata dopo i test di Pokram II del 1998), in parte alle tensioni con i paesi vicini (Pakistan e Cina in primo luogo); inoltre avevano contribuito a determinare tale situazione anche il retaggio di Bandung e l’allergia per qualsiasi tipo di alleanza vincolante, atteggiamento che ha ingenerato l’ossessione per la piena indipendenza in politica estera e la volontà di ribadire l’assoluta sovranità nazionale nelle questioni interne.
A partire dal 2005 ha inizio la rivoluzione della politica indiana: la cooperazione con gli Stati Uniti è stata rafforzata attraverso la partnership in ambito di nucleare civile, con la quale di fatto gli USA sdoganavano Nuova Delhi quale potenza nucleare e si impegnavano a sostenerne le aspirazioni di grande potenza. È qui che politica interna e politica estera si intrecciano, ed è per questo che Nuova Delhi sembra essere alla costante ricerca di conferme circa la solidità della special relationship in fieri con Washington, cosa che le garantirebbe la certezza di avere spianata la strada che la condurrà fra le grandi potenze riconosciute del XXI secolo.
Proprio sulla questione delle relazioni con Washington il primo governo Singh ha vissuto i momenti di maggiore tensione, soprattutto a causa dell’opposizione delle sinistre che sostenevano esternamente il governo e che ne hanno pesantemente condizionato l’agenda. In occasione delle elezioni del 2004, infatti, le sinistre hanno conseguito il risultato più significativo della loro storia: limitandosi ad appoggiare il governo di Singh senza assumere incarichi ministeriali, erano riusciti ad acquisire un potere negoziale formidabile e una grande capacità di influenzare le politiche governative, frenando così il piano di liberalizzazione dell’economia indiana di Singh; brandendo il vessillo dell’antiamericanismo si erano opposti strenuamente alla formalizzazione dell’accordo di cooperazione relativo al nucleare civile tra Stati Uniti e India. La situazione però è cambiata nel luglio del 2008, quando le sinistre hanno ritirato il proprio appoggio al governo, che tuttavia è riuscito a sopravvivere all’incubo delle elezioni anticipate ottenendo il voto di fiducia della Camera grazie a una brillante e non poco contestata battaglia parlamentare condotta da Mukherjee (uno dei leader storici del Partito del Congresso, allora ministro degli Esteri).
Le elezioni dello scorso anno hanno semplificato molto il quadro politico e hanno spianato la strada a un governo Singh II per il completamento dell’agenda di governo.
Lo schieramento politico al governo infatti ha incrementato in maniera più che significativa il proprio successo elettorale rispetto alle elezioni del 2004, quando il Congresso e i suoi alleati, pur avendo vinto le elezioni, non erano in grado di avere la maggioranza dei seggi e di conseguenza il ruolo delle sinistre diveniva di fondamentale importanza per la stabilità del governo. Come è stato osservato, non era la prima volta che si formava un governo multipartitico, ma si era sempre trattato di coalizioni con un partner chiaramente dominante, mentre la coalizione di governo che andava sotto il nome di United Progressive Alliance (UPA) non avrebbe potuto governare senza l’appoggio esterno del fronte delle sinistre guidato dal CPI(M), il Communist Party of India.
Con le elezioni del 2009 il Congresso passa da 145 deputati a 206, mentre il Bharatiya Janata Party (BJP), il partito della destra hindù, crolla dai 138 seggi conquistati nelle elezioni del 2004 ai 116 attuali. Assai significativa anche la battuta d’arresto delle sinistre (il Terzo fronte), che nelle elezioni del 2004 erano riuscite a conquistare una rilevanza nazionale: nell’ultima tornata elettorale hanno perso ben 29 seggi, fermandosi a quota 80 deputati.
Nel complesso l’UPA ha conquistato 262 seggi (la maggioranza relativa è di 272) e la National Democratic Alliance (NDA), la coalizione della destra hindù, ha conquistato 157 seggi.
Subito dopo le elezioni, il Congresso e la premiership di Singh hanno ottenuto il supporto esterno di altri partiti: il Bahujan Samaj Party, che ha portato in dote 21 seggi, il Samajwadi Party con 23 seggi, il Janata Dal (Secular) con 3 seggi, più altri parlamentari indipendenti. Il risultato è una maggioranza possente di 305 parlamentari. Ora il Congresso ha margini di manovra talmente ampi da trovarsi nella condizione di agire senza nessun significativo condizionamento esterno. Come spiegare il successo del Congresso che, è bene sottolinearlo, non era affatto scontato? Prima di rispondere a questa domanda è importante provare a dare conto della struttura della società indiana. Partiamo da un dato: oltre il 53% del PIL del paese è prodotto dai servizi. Approssimativamente circa il 20% della popolazione indiana è impiegata in tale settore (circa 200 milioni di cittadini). Tuttavia, per quanta visibilità abbia ricevuto l’alta tecnologia di Bangalore, il comparto IT (Information Technology) indiano ha fatto nascere direttamente solo un milione e trecentomila posti di lavoro, cui si uniscono altri tre milioni creati in modo indiretto: una goccia nel mare.
Intorno alla soglia di povertà gravitano 600 milioni di persone; di queste, circa trecento milioni vivono con meno di un dollaro al giorno. Un dato che va letto congiuntamente al fatto che «più della metà della popolazione attiva è impegnata nell’agricoltura e il 70% della popolazione è rurale. Di conseguenza il PIL agricolo (...) influenza ancora un terzo del PIL e quasi la metà della domanda, come si può vedere negli anni caratterizzati da monsoni cattivi. Il ciclo dei monsoni (...) influenza ancora ampiamente le fluttuazioni dell’intera economia indiana e della sua stessa storia politica».2 Nel mezzo, una indistinta e sui generis classe media, pari a circa 300 milioni di persone. «La classe media individuata parte dalla fascia di reddito di 80-90.000 rupie annue (circa
1.500-1.700 euro annui): un reddito che in India permette di vivere abbastanza dignitosamente – specie al di fuori delle grandi metropoli – ma nulla di più. Si tratta, come è evidente, di dati decisamente ottimistici (...). Se per classe media si intende una fascia caratterizzata da livelli di tipo occidentale – una abitazione di proprietà, accesso a istruzione e servizi sanitari adeguati, un’automobile, vacanza ogni anno, il ristorante ogni tanto, e così via – allora la cifra di 300 milioni non regge assolutamente».3 Stando a stime più recenti del National Council of Applied Economic Research, poco più del 6% della popolazione avrebbe uno stile di vita paragonabile a quello di una classe media di tipo occidentale.4
Si consideri inoltre che tra gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta l’80% del PIL veniva dall’agricoltura e il 75% della popolazione viveva in aree rurali, mentre oggi solo circa il 30% del PIL deriva dall’agricoltura e il 75% della popolazione vive ancora in aree rurali. Per quanto riguarda l’occupazione nel settore agricolo si è certamente verificata una contrazione negli anni: dal 57% nel 2000 al 51% nel 2004, «cioè paradossalmente a un livello vicino a quello della Cina ma con un PIL pro capite inferiore alla metà».5
Il settore secondario cresce, ma non quanto servirebbe al paese; questo infatti è «un settore che rimane stabile fra il 1901 e il 1991 intorno al 12,5%, per poi salire bruscamente al 17,5% degli occupati nel 2000 e a quasi il 20% nel 2004. Questa progressione è dovuta per metà al settore edilizio e per l’altra metà a quello manifatturiero. Quest’ultimo rappresenta tuttavia solo il 13% dell’occupazione totale».6
Il punto è che, per poter aumentare lo sviluppo interno, una quota crescente degli occupati in agricoltura dovrebbe confluire in altri settori, ma quello manifatturiero è ancora asfittico e un balzo dai campi all’IT parrebbe impossibile, soprattutto se si considera che quasi il 40% della popolazione è analfabeta. Da qui la domanda che assilla molti: come può l’India creare i 500 milioni di posti di lavoro di cui avranno bisogno le persone che abbandoneranno l’agricoltura, oltre ai 10 milioni di posti di lavoro di cui avranno bisogno coloro che sono sottoccupati e disoccupati e che già si trovano nelle città, senza contare le nuove generazioni che si succederanno a mano a mano che la popolazione continuerà a crescere?
Alle profonde fratture socio-economiche bisogna aggiungere le fratture di tipo religioso: il 60% della popolazione hindù, il 30% di musulmani, con l’aggiunta di un 6-7% di cattolici e sikh.
Questa premessa potrebbe essere utile per provare ad analizzare il voto del 2009. L’atteggiamento delle sinistre è stato un vero e proprio harakiri: la sfiancante opposizione interna, combinata con la volontà di non assumersi responsabilità di governo e di conferirsi il ruolo di “voce critica” del governo, che pure sosteneva, hanno fatto del Left Front una formazione politica priva di “cultura di governo”, per usare un gergo noto.
Non solo: la campagna elettorale è stata condotta mostrandosi non collaborativi né rispetto al Congresso, né rispetto al BJP, aspirando a un governo composto unicamente dai partiti di sinistra, posizione che certo sarà apparsa eccessivamente velleitaria.
Particolarmente cocente si è rivelata la sconfitta del BJP e dell’alleanza da esso capeggiata, la NDA, che per la seconda volta sembra non essere entrata in sintonia con il mood della nazione. Nel 2004 la sconfitta fu dura e inaspettata, anche per il Partito del Congresso. Il BJP, allora, si presentò alle elezioni con lo slogan della shining India: l’India splendente dei servizi e della rivoluzione tecnologica, che, però, come si è detto, tocca al massimo 100 milioni di persone. Le elezioni allora furono decise dalla consistente parte del paese che aveva visto poco splendore intorno a sé. Il Congresso di Sonia Gandhi, invece, aveva impostato la campagna elettorale sull’immagine dell’“uomo comune”: fu un trionfo.
Anche questa volta il BJP ha sbagliato target puntando nuovamente sull’India splendente ed enfatizzando le divisioni religiose. Perché dunque la coalizione di Sonia Gandhi e Singh ha vinto? Una prima risposta potrebbe far riferimento al fatto che la coalizione si è presentata all’appuntamento elettorale mantenendo un profilo molto moderato e incentrato sulla giustizia sociale. Gli elettori hanno dato fiducia al Congresso in chiave di continuità in termini sociali ed economici. Nel manifesto elettorale del partito, infatti, si legge che per il Partito del Congresso «economic growth and social justice are two sides of the same coin». In altre parole, il Congresso ha dissipato le paure per il futuro, rassicurato gli esclusi dallo sviluppo economico, consolato le diverse anime religiose del paese infastidite dalle posizioni del BJP e dato speranza per il progresso economico e sociale del paese. Al contempo, tuttavia, è stato in grado di lanciare un messaggio di tipo inter-religioso, anzi, più propriamente secolare, come nella sua tradizione. Un messaggio che non ha creato né fazioni né frizioni.
Dal punto di vista della politica economica la sconfitta delle sinistre ha certamente rappresentato la scomparsa di quella zavorra che per anni ha frenato il processo di riforme e liberalizzazioni della struttura economica del paese, che porta ancora i segni del sistema del License Raj (sebbene sia stato stanziato negli anni Novanta).
Eppure, ad oggi il governo non ha mostrato l’intenzione di procedere a tappe forzate verso una riforma liberale. Questo certo perché la carta vincente del Congresso è quella di attuare una politica di tipo inclusivo, che è probabilmente uno degli elementi essenziali della vittoria: in tale contesto una politica di sostenute e rapide liberalizzazioni e privatizzazioni avrebbe come effetto un ulteriore aumento delle fortissime disparità di reddito e un marcato squilibrio nella distribuzione della ricchezza nazionale, esponendo un tessuto economico (che è sempre stato protetto dalla regolamentazione) ai venti della concorrenza internazionale, per di più in una fase di crisi economica. È probabile quindi che Singh, anche senza le sinistre, continui a procedere gradualmente verso l’ammodernamento del sistema economico del paese.
L’India di oggi è dunque un paese più governabile, che può affrontare con maggiore solidità la nuova fase liberale, ma anche un paese alla ricerca di un nuovo equilibrio tra l’India rurale e l’India all’avanguardia dei nuovi processi globali. Un passaggio guidato da Manmohan Singh, che potrebbe anche essere protagonista di un altro passaggio politico, che lo riguarda direttamente. È probabile, infatti, che Rahul Gandhi succederà all’attuale primo ministro: un giovane Gandhi sarà così di nuovo alla guida dell’India. La nuova India globale si presenterà come un paese che vuole essere più equilibrato, più laico, con una classe politica in fase di forte rinnovamento, che punta a una nuova unione nazionale, superando le divisioni storiche e quelle più recenti per affermarsi definitivamente come nuovo protagonista sulla scena globale.

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[1] D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti, Milano 2009.
[2] J.-J. Boillot, L’economia dell’India, il Mulino, Bologna 2007, p. 53.
[3] A. Armellini, L’elefante ha messo le ali, Università Bocconi Editore, Milano 2008, p. 83.
[4] Ibid.
[5] Boillot, op. cit., p. 51.
[6] Ivi, pp. 51-52.