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Il declino della partecipazione al voto. Compagno al duol…(non) scema la pena

Da anni in Italia si registrano crescenti tassi di astensionismo. Al punto che alla vigilia di ogni tornata elettorale si può prevedere, con un elevato grado di fiducia, un ulteriore calo del tasso di affluenza alle urne. Eppure puntualmente, alla chiusura dei seggi, le forze politiche e gli organi di informazione si mostrano sorpresi della crescita dell’astensionismo ed esprimono preoccupazione per il distacco e il disinteresse dei cittadini rispetto alla procedura di selezione dei decisori. La sensazione è che le dichiarazioni di forze politiche e organi di informazione assecondino un canone politicamente corretto, ma non corrispondano ad una preoccupazione davvero urgente. L’attenzione già nell’immediatezza dell’esito elettorale si sposta esclusivamente sui risultati di quella determinata competizione, sulle ragioni che li hanno determinati.

La fuga (diseguale) dalle urne: trent’anni di astensionismo in Italia

Alla vigilia del 25 settembre pochi avrebbero scommesso su una ripresa della partecipazione. Non deve quindi sorprendere che il verdetto delle urne sia stato anche peggiore delle aspettative, con la percentuale di votanti crollata al 63,9%, quasi dieci punti inferiore rispetto al 2018. Si è trattato di un calo senza precedenti, un vero e proprio crollo le cui dimensioni appaiono ancora più preoccupanti se si guarda alla distribuzione territoriale del non voto. Pur in presenza di un deciso peggioramento nel Centro-Nord, è nelle regioni del Sud che i numeri si sono rivelati impietosi, con appena un elettore su due che si è recato alle urne.
Diverse ragioni sono state richiamate per spiegare questo risultato così negativo: l’anomalia della stagione politica precedente, che aveva visto una larga coalizione sostenere il governo Draghi a discapito del tradizionale confronto-scontro tra coalizioni;

Sull’astensionismo

L’astensionismo è il risultato di più cani che si mordono la coda, in un processo a spirale per il quale non sembrano esserci controindicazioni. Uno scenario nel quale sono ormai definiti i contorni di una democrazia vieppiù informe, con basi di legittimazione sempre più ristrette ed esclusive, dominata dalle oligarchie economico-sociali e periodicamente percorsa da moti ribellistici anti-elitari. Se fino agli anni Novanta l’astensionismo è proceduto con misura in tutte le democrazie europee assecondando una naturale deflazione delle passioni politiche al seguito del benessere e della stabilità istituzionale, oggi il fenomeno sembra entrato in una dismisura che appare come il più evidente consuntivo del ciclo neoliberista. Masse elettorali disaffezionate e allo stato brado, volatili, a fronte di partiti ancorati a vecchie “famiglie” ormai esangui o di nuovo conio surrogatorio, cartellizzati come ceto nella sfera istituzionale, distanti anni luce da ogni funzione integrazionistica, oppure occasionale megafono delle masse alienate percosse dalla crisi economica ed emarginate dal sistema politico e dalla cultura dominante.

Benessere e non voto. Quale relazione?

Individuare le determinanti del voto è estremamente difficile da quando le tradizionali variabili sociologiche (come ad esempio pratica religiosa, reddito, istruzione, appartenenza territoriale) hanno perso parte della loro capacità esplicativa. Recenti studi sul comportamento elettorale sono stati condotti indagando in più direzioni: da una parte si sono ricercate nuove variabili in grado di spiegare l’orientamento politico, soffermandosi, ad esempio, sui comportamenti di consumo o sulla dimensione valoriale; dall’altra vi è stato un recupero e una rivisitazione delle categorie del voto “economico” con l’esplorazione di nuovi significati dove evidente è lo spostamento verso categorie che richiamano il benessere economico e sociale.
L’ipotesi del superamento delle tradizionali variabili sociologiche per spiegare il comportamento elettorale non ha però trovato una piena conferma, almeno quella attesa sul piano empirico.

Istituzioni e partecipazione politica

La crisi della rappresentanza politica si riflette nella più ampia crisi regolativa che caratterizza gli Stati e che ha comportato una rideterminazione dei processi e degli equilibri istituzionali, della fiducia e legittimazione del sistema, del rapporto tra cittadini e istituzioni politiche. Il venire meno dell’equilibrio assicurato dalla regolazione sociale garantita dallo Stato e da una redistribuzione “socialmente equa” dei vantaggi della crescita economica ha accresciuto la sfiducia nelle istituzioni pubbliche e il sentimento di insoddisfazione dei cittadini per la mancanza di risposte alle problematiche e alle istanze poste dal basso, influendo sul calo della partecipazione politica. In altri termini la distanza percepita dai cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche è strettamente correlata con la crisi di legittimazione politica e con l’erosione delle basi di consenso e di fiducia negli attori tradizionali della rappresentanza.

L’astensionismo elettorale in Lombardia e Lazio. Una parentesi o una tendenza?

Le recenti elezioni regionali del 12 e 13 febbraio 2023, che hanno riguardato la Lombardia e il Lazio, hanno mostrato un clamoroso tracollo della partecipazione elettorale, registrando un tasso di astensionismo troppo marcato, tale da suscitare preoccupazione da parte di studiosi, politici e addetti ai lavori.
Per avere un’immediata istantanea di quanto accaduto, basta guardare i due risultati. In Lombardia, la più importante, ricca e popolosa Regione italiana, su 8.010.538 aventi diritto al voto, si sono recati alle urne 3.339.019 elettori, ovvero il 41,6%. Nelle elezioni precedenti, svoltesi il 4 marzo 2018, ma in concomitanza con le elezioni politiche – fattore questo molto importante – ai seggi si erano presentati 5.762.459 cittadini lombardi su 7.882.633, ossia il 73,1%. In pratica, tra un’elezione regionale e l’altra si sono persi quasi 2 milioni e mezzo di elettori (per la precisione 2.423.440).

Il partito che sceglie da che parte stare

La crisi ha fatto riemergere in Italia una drammatica questione so­ciale. Nuove linee di frattura tagliano trasversalmente la società, sepa­rando inclusi ed esclusi di un modello di sviluppo sempre più oligar­chico e parassitario. Di fronte a questa scelta di campo, come si colloca il Partito Democratico? In quale parte decide di giocare la sua partita? La forza del PD sta oggi nell’aver rigettato l’idea che si possa parlare alla società come a un tutto indistinto per scegliere invece con chia­rezza di stare dalla parte giusta della linea, dalla parte degli esclusi.

Come il tempo quotidiano rivela le diseguaglianze

Gli studi dimostrano come la società italiana sia di fatto disattenta alle diseguaglianze che passano attraverso la “discriminazione temporale”: l’uso del tempo dipende strettamente dal potere e dal grado di opportunità e libertà di cui si dispone. Una breve panoramica sui dati a disposizione, soprattutto riguardo all’utilizzo del tempo da parte di donne e bambini, può dare conto dell’entità del fenomeno.

Meno diseguaglianze per promuovere e sostenere la crescita

Le diseguaglianze nella redistribuzione dei redditi si sono notevolmente accentuate a partire dagli anni Novanta, con una rapidità che a prima vista può sorprendere. Eppure, la ripartizione arbitraria e iniqua della ricchezza è diretta conseguenza di scelte politiche poco attente, sostenute da una lunga egemonia del pensiero liberista e da un diffuso atteggiamento pro-mercato. Il rilancio della crescita però, soprattutto in tempo di crisi, non può più prescindere dalla riduzione delle diseguaglianze.

Occupy Wall Street

Il movimento Occupy Wall Street probabilmente non sopravvivrà a lungo. Esso tuttavia ha avuto il merito di iniziare alla politica una nuova generazione di americani e di riportare al centro del dibattito politico statunitense una questione troppo a lungo trascurata: quella dell’enorme crescita delle diseguaglianze.


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