Cina e Taiwan a Singapore. L’unità nella diaspora

Written by Romeo Orlandi Monday, 09 November 2015 15:28 Print
Cina e Taiwan a Singapore. L’unità nella diaspora Foto: Presidential Office

La stretta di mano tra il presidente cinese Xi Jin Ping e quello di Taiwan Ma Ying-jeou segna una svolta radicale nelle relazioni tra i due paesi e chiude, dal punto di vista formale, sessantasei anni di tensioni e contrasti. Si pone così un ulteriore e importante tassello nel processo di ridefinizione degli assetti strategici e di sicurezza nel Mar Cinese meridionale. Nuovi assetti incentrati su una Cina sempre più forte e temuta.


La Grande Madre Cina si è data appuntamento a Singapore e l’esito non è stato deludente. È andata in scena una stretta di mano dopo sessantasei anni di guerra fredda e di tensioni bollenti. Il presidente cinese Xi Jin Ping ha incontrato Ma Ying-jeou, presidente di Taiwan, cioè di una provincia che Pechino considera ribelle e sulla quale momentaneamente non può esercitare la propria sovranità. L’ultimo incontro tra i leader comunisti e i nazionalisti cinesi (dei quali Taiwan è la dimora politica) ha avuto luogo nel 1945, quando Mao Zedong e Jang Je Shi – conosciuto allora con la grafia Chiang Kai-shek – si incontrarono per ricostruire la Cina dopo la sconfitta del Giappone. Nonostante la mediazione di Truman, i colloqui fallirono, la guerra civile riprese, i nazionalisti furono sconfitti e ripararono nell’isola, sull’altra sponda dello stretto di Formosa. Solo la protezione USA ha impedito la continuazione della guerra. Pechino ha sempre riconosciuto Taiwan come suo territorio inalienabile e non ha mai rinunciato formalmente al possibile uso della forza per il ritorno alla madre patria. Taipei invece si è considerata per decenni il legittimo rappresentate dell’intera Cina. Geograficamente la decisione era bizzarra, come se un governo in esilio all’Isola d’Elba pretenda di rappresentare l’Italia. Tuttavia, nel clima di contrapposizione ideologica e militare, questa posizione è valsa a Taiwan il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU fino al 1971. Con un solo anno di anticipo Roma aveva riconosciuto nel governo di Pechino il legittimo rappresentante dell’intera Cina. Washington lo ha fatto nel 1980, anche se ha stretto un patto di difesa con Taiwan per dissuadere eventuali attacchi cinesi. I fotografi che allo Shangri-La hanno immortalato i sorrisi e la stretta di mano sapevano di essere testimoni di un evento storico. Effettivamente la cordialità tra i due leader – che si sono chiamati “signore” e non “presidente” – imprime una svolta non solo formale a un nuovo tessuto di relazioni. Dopo minacce e inimicizie, prevalgono concetti che si ispirano alla pace: collaborazione, unità, sviluppo. Gli scarni risultati dell’incontro sbiadiscono rispetto al suo valore: aver riconosciuto la controparte è stato un atto da palcoscenico, ma con una prospettiva da trampolino.

In realtà le due sponde dello stretto si ascoltano e si blandiscono da anni. Da tempo è consegnata alla storia la proibizione di ogni contatto con il nemico. Le famiglie divise nel 1949 si vedono senza restrizioni, esistono decine di voli diretti giornalieri, le visite politiche sono sempre fittissime. Le relazioni economiche hanno trainato un ravvicinamento impensabile con le sole analisi ideologiche. I vincoli familiari, l’orgoglio della stessa cultura, l’inserimento nel circuito della globalizzazione sono stati preziosi strumenti di successo. Gli scambi commerciali sono fiorentissimi, decine di migliaia di imprese taiwanesi hanno investito in Cina, quasi 2 dei 23 milioni dei suoi cittadini vivono nel continente. Le differenze di reddito si sono assottigliate. Taiwan è stata una delle più prospere tigri asiatiche e ha saputo convertire il PIL in una società democratica con una vivace vita parlamentare. Ironicamente per il presidente Ma, l’evento di Singapore può essere il canto del cigno. Dopo otto anni al potere il suo partito – il vecchio Guomindang – può perdere le elezioni a vantaggio del Partito Progressista Democratico, che rappresenta le aspirazioni autonomiste se non indipendentiste della popolazione. I suoi elettori considerano mortale l’abbraccio con Pechino e si definiscono cinesi etnicamente, ma taiwanesi politicamente. Singapore, popolata per tre quarti da cinesi, non poteva essere una sede migliore per la mediazione. È ricca, indipendente, stabile: un esempio per tutti.

Se le condizioni e il luogo per lo spettacolare incontro erano maturi, forse ancora più importante è la scelta del tempo. Nel Mar Cinese meridionale si stanno ridefinendo gli assetti strategici e della sicurezza. La fine della guerra fredda e la prepotente emersione economica hanno rimesso in discussione la pax americana. La Cina è ora così forte al punto da rivendicare nuovi confini, appropriandosi di isolotti contesi che le permetterebbero di spostare di migliaia di chilometri i suoi confini. Tutti i paesi dell’Estremo Oriente sono preoccupati, in primis il Giappone, il Vietnam, le Filippine. Richiedono la protezione statunitense, ma non possono rinunciare al traino economico della Cina. Pechino è tuttavia potente ma isolata, perché oggi incute più timore che speranza. Ha bisogno di alleanze solide e le trova – negoziandole – nella classica appartenenza a una gloriosa civilizzazione. Il nazionalismo si rivela un mastice redditizio. Al di là della cronaca contingente, Taiwan ha regolarmente appoggiato la tradizione e la potenza della Cina, indipendentemente da chi la rappresenti. Stringere la mano da pari a Xi Jin Ping è stato un indubbio successo. A Singapore è stata fatta giustizia di lunghe dimenticanze: Taiwan è la madre di tutte le questioni nel Pacifico. È possibile sia stato aperto un canale negoziale dagli esiti probabilmente titanici. Se Pechino, in qualsiasi forma federativa, potrà contare sul ritorno in patria di Taiwan, aggiungerà muscoli e toglierà nemici alla sua espansione. L’isola potrebbe godere di democrazia, alto tenore di vita, sicurezza e stabilità. È uno scenario nel quale lo scorrere del tempo, come sempre nella tradizione cinese, produce in silenzio grandi risultati. La strada alla riunificazione è rischiosa, insidiosa e lastricata da enormi difficoltà. Tuttavia i due leader ora si incontrano e si parlano. Lo fanno in cinese, la lingua a loro comune e che esclude tutti gli altri dall’interlocuzione.

 

 


Foto: Presidential Office

 

le Pubblicazioni


copertina_1_2024_smallPuoi acquistare il numero 1/2024
Dove va l'Europa? | L'approssimarsi del voto per il rinnovo del Parlamento europeo impone una riflessione sulle proposte su cui i partiti e le famiglie politiche europee si confronteranno | Leggi tutto