Outlet Italia

Written by Fabio Veronica Forcella Thursday, 15 October 2015 14:39 Print

Nel 2014 l’Italia ha scalato le classifiche internazionali relative alla capacità dei sistemi economici dei singoli paesi di attrarre investimenti diretti esteri, registrando, insieme alla Slovenia, il più alto incremento a livello europeo. Leggendo i dati più in profondità emergono però dettagli, a tratti preoccupanti, che dovrebbero indurre a una maggiore riflessione.


È una di quelle notizie che in molti hanno salutato positivamente, ma che, a ben guardare i dati, nasconde più di qualche insidia. Nel 2014 l’Italia è il paese dell’area euro che, insieme alla Slovenia, ha conosciuto il maggiore incremento dell’IDE, l’indicatore che misura gli investimenti diretti esteri, cresciuto, rispetto al 2013, del 3,5%. Con un aumento pari a 9,5 miliardi di euro, nessun altro paese ha registrato una crescita di questa portata.

La percentuale sul PIL di questa tipologia di investimento nel nostro paese è, secondo la CGIA di Mestre che ha elaborato dati dell’UNCTAD (la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), ancora molto bassa: nel 2014 eravamo al 17,4% del PIL, in coda alla graduatoria europea insieme alla Grecia, ferma all’8,5%. Ad aver reso l’Italia, nel corso degli anni, poco attraente per un investitore estero, sono stati soprattutto «l’eccessivo peso delle tasse, le difficoltà legate a una burocrazia arcaica e farraginosa, la lentezza della giustizia civile, il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali, il deficit infrastrutturale e il basso livello di sicurezza presente in alcune aree del paese». Insomma, tutti fattori che conoscono bene gli imprenditori italiani che, ogni giorno, «continuano a credere nelle proprie attività, a investire nel futuro e a dare lavoro a milioni e milioni di italiani».

Quello che fa riflettere leggendo i dati più in profondità, però, è quanto emerge dalla distribuzione geografica dei flussi di capitali in entrata. Tra i paesi che hanno fatto più “shopping” in Italia troviamo il Lussemburgo, con il 39% del totale, seguito dalla Francia (20,8%) e dal Belgio (12,4%). Ed è proprio il dato relativo al Lussemburgo a suscitare le maggiori perplessità. Il Granducato può essere considerato a tutti gli effetti il paradiso fiscale d’Europa, grazie alle generosissime agevolazioni che negli ultimi dieci anni sono state concesse a una lunga lista di società, come anche alcune recenti inchieste hanno dimostrato. È chiaro, infatti, che gli investitori lussemburghesi sono riconducibili a multinazionali presenti in quel paese solo con la loro sede fiscale.

L’associazione degli artigiani di Mestre ricorda che il risultato ottenuto nel 2014 è dovuto in larga parte all’acquisizione, da parte dei grandi gruppi finanziari stranieri, di pezzi importanti del nostro made in Italy. «Nel settore della moda, dei servizi, delle comunicazioni e dei trasporti – ricorda la nota – molti marchi storici sono finiti sotto il controllo degli investitori stranieri. Se queste acquisizioni non daranno luogo a una fuga all’estero delle attività progettuali e produttive di questi nostri brand, tutto ciò va salutato positivamente».

Negli ultimi venti anni i processi di internazionalizzazione, unitamente a una feroce finanziarizzazione dell’economia, hanno però mostrato il contrario. Troppo spesso le logiche della speculazione e della finanza poco si sono conciliate con quelle della cosiddetta economia reale. È ormai fin troppo evidente come, in un mercato globale, si competa non più solo attraverso l’innovazione di processo o di prodotto, ma anche – e soprattutto – attraverso l’acquisizione e la successiva eliminazione del competitor.

Ad attrarre capitali è soprattutto il Nord-Ovest, l’area che ha registrato il più alto numero di investimenti esteri. Nel 2013, ultimo anno per il quale ci sono dati disponibili per ripartizione geografica, il vecchio triangolo industriale si è assicurato il 65% circa degli investimenti totali. Seguono il Centro, con il 18,5%, il Nord-Est, con il 13,8%, e ultimo – neanche a dirlo – il Sud, con il restante 2%.

Il Centro studi Eurispes, nella ricerca “Outlet Italia. Cronaca di un paese in (s)vendita”, già nel 1013 aveva indagato sul fenomeno, osservando come molte delle nostre migliori realtà imprenditoriali siano state schiacciate dalla congiuntura economica negativa, unita all’iperburocratizzazione della macchina amministrativa, a una tassazione iniqua, alla mancanza di aiuti e di tutele e all’impossibilità di accesso al credito bancario.

L’intreccio di tali fattori, secondo l’Eurispes, avrebbe inciso sulla mortalità delle imprese creando una sorta di mercato “malato” all’interno del quale la chiusura di realtà imprenditoriali importanti per tipologia di produzione e per know-how si è accompagnata spesso a una svendita (pre o post chiusura) necessaria di fronte all’impossibilità di proseguire l’attività. Per questo motivo, l’afflusso di capitali esteri nel nostro paese non è avvenuto secondo le normali regole di mercato e le aziende si sono dovute piegare a una vendita “sottocosto” rispetto al loro reale valore.

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