I partiti possono davvero fare a meno del finanziamento pubblico?

Written by Marco Almagisti Monday, 22 December 2014 17:15 Print

I partiti politici sono sempre meno i principali vettori della partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese. Eppure essi hanno dato un contributo essenziale allo sviluppo democratico dell’Italia repubblicana. L’eliminazione del finanziamento pubblico, nonostante il consenso con cui è stato accolto, rischia però di indebolire ulteriormente tale partecipazione.


«Oggi la stessa parola “assemblea” odora di anacronismo. Eppure qualcosa ci dice che ripartire da lì, da quel basso così alto che era “la vita di partito”, le sezioni piene, le discussioni accese, le liti appassionate, sia l’unico rimedio percepibile per ciò che i politologi chiamano “crisi della rappresentanza”. Uscire di casa, cercare gli altri, parlare con loro. Oppure rimanere rinchiusi ciascuno nel suo guscio e davanti al suo video, dove leggere (a cose fatte) che tutto va in malora, nonostante noi, senza di noi».[1] Queste parole sono state scritte da Michele Serra nelle ore in cui stava affiorando il malaffare di Roma e il neocommissario del PD romano, Matteo Orfini, prometteva di aprire una grande assemblea pubblica con iscritti, elettori e cittadini per affrontare la questione del coinvolgimento di alcuni esponenti democratici negli scandali romani.

A molti sono apparse, appunto, anacronistiche, riflesso di un contesto idealizzato in cui i partiti (di massa) costituivano i principali vettori della partecipazione e la partecipazione stessa garantiva, tramite i contributi degli iscritti, la sostenibilità di una parte dei costi della politica. Si deve discutere delle luci e delle ombre che hanno accompagnato la parabola dei partiti di massa nella storia dell’Italia repubblicana e della lontananza che separa la società (non solo la politica) contemporanea rispetto al contesto egemonizzato da tali partiti. Tuttavia, il richiamo evocato da Serra ha il pregio di far emergere il senso di una differenza rispetto a un tempo in cui la politica dei partiti incrociava la partecipazione dei cittadini, ai quali in vario modo tendeva a rendere conto.

Nella storia repubblicana abbiamo avuto partiti di massa a forte istituzionalizzazione, quale il PCI, capaci di fare della propria organizzazione una formidabile risorsa politica, e partiti debolmente istituzionalizzati, come la DC, che poteva plasmarsi in funzione del radicamento plurisecolare della Chiesa sul territorio italiano (in particolare nell’Italia nordorientale).[2] In entrambi i casi, lungo processi non privi di contraddizioni, tali partiti hanno garantito per decenni la connessione fra società e istituzioni democratiche, contribuendo a costruire e consolidare la democrazia in Italia.

Qualunque critica si intenda rivolgere ai partiti di massa, si deve tener presente che per molti anni il nostro paese è stato l’unico dell’Europa meridionale governato da un regime democratico e non da dittature di destra e questo risultato è stato in parte sostanziale dovuto anche alla presenza organizzata dei partiti, grazie alla quale milioni di persone in precedenza estranei sono stati socializzati ai codici e alle attività della politica democratica. Se i partiti hanno vinto la sfida della costruzione e del consolidamento democratico, essi però hanno perduto quella dell’adattamento alle nuove domande che, dagli anni Settanta in poi, sono emerse da contesti sociali in rapida trasformazione.[3]

Alcune tendenze al mutamento politico sono emerse anche negli altri paesi, in seguito ai cambiamenti della struttura sociale e produttiva e alla diffusione di nuove forme di comunicazione di massa; tuttavia quanto è accaduto in Italia negli ultimi venticinque anni non ha eguali fra le democrazie occidentali. Il crollo di un intero sistema politico ha comportato la scomparsa dei partiti storici fondatori della Repubblica e il ventennio della “lunga transizione” ha lasciato irrisolti i problemi del paese e reso gli italiani molto più scettici e disaffezionati alla politica.

Nelle democrazie europee, tra il 1950 e il 1994, gli iscritti ai partiti politici sono calati da una media dell’8,1% sul totale degli elettori al 5,7%. Solo in Italia, negli anni Novanta i partiti hanno perso oltre due milioni di iscritti.[4] Oltre a certificare il declino della centralità dei partiti, il calo delle iscrizioni comporta una riduzione delle quote associative, in un’epoca che vede le spese dei partiti in costante aumento (soprattutto per le campagne elettorali in televisione). Non è casuale che nella seconda metà del Novecento il finanziamento pubblico ai partiti sia stato introdotto in molti paesi dell’Europa occidentale: in Germania (1959), in Svezia (1965), in Danimarca (1967), in Norvegia (1970), in Italia (1974), in Austria (1975), in Spagna (1978), in Portogallo (1983), in Grecia (1984), in Danimarca (1987), in Francia (1988), in Belgio (1989).

La principale ragione che ha indotto l’introduzione del finanziamento pubblico ai partiti riguarda la garanzia di accesso alla competizione politica anche per le porzioni meno abbienti della società, che non dispongono di ingenti patrimoni privati, garantendo al contempo una competizione più equa fra i partiti e riducendo la dipendenza della politica dai “poteri forti” di economia e finanza. Certo, non mancano i possibili effetti perversi relativi all’introduzione di tale finanziamento: c’è chi ha parlato di “cartellizzazione dei partiti”, ossia di una tendenza dei partiti a stipulare accordi oligopolistici fra loro e ad accrescere la propria dipendenza dallo Stato.

In Italia, la legge 195/1974, che disciplina il finanziamento pubblico ai partiti, è stata oggetto di due referendum abrogativi aventi esiti opposti: nel 1978 il 56,3% dei votanti si espresse a favore della permanenza del finanziamento pubblico, mentre nel 1993 il 90,3% dei votanti scelse l’opzione abrogativa. Dal 1993 al 2014 è stato escluso il finanziamento pubblico per le attività non elettorali dei partiti, mentre era previsto il solo finanziamento delle campagne elettorali, di candidati e partiti, con limiti massimi di spesa.

Secondo molti critici, quell’assetto non ha mai garantito sufficiente trasparenza ed eguaglianza nelle campagne elettorali, favorendo sprechi e iniquità. Tuttavia, molti di quei critici – ricordo in particolare una serie di interventi apparsi sulle colonne de “l’Unità” nel 2013 – ritenevano i pregi del finanziamento pubblico complessivamente prevalenti rispetto agli inconvenienti e auspicavano che i costi relativi alle attività dei partiti fossero ragionevoli e non percepiti quali eccessivi da parte dei cittadini, soprattutto in un periodo di crisi economica.

Il blog di Fabrizio Barca ha ospitato una proposta sperimentale, avanzata dai politologi Piero Ignazi ed Eugenio Pizzimenti, orientata a vincolare l’accesso ai finanziamenti pubblici a precise garanzie statutarie dei partiti e a minuziosi meccanismi di controllo incrociato. Il governo Letta ha scelto, invece, di eliminare completamente il finanziamento pubblico, tramite un provvedimento che ha incontrato un consenso vastissimo fra i nostri concittadini.

Chi scrive mantiene al riguardo più di un dubbio: temo che, senza finanziamenti pubblici, i partiti rinuncino a promuovere quelle attività di formazione e confronto con la cittadinanza di cui la nostra democrazia ha vitale bisogno e, al contempo, molti politici attingano a fonti di finanziamento privato poco commendevoli al fine di “scalare” posizioni nel partito e negli enti pubblici. Temo che, per tale via, quel malaffare che tallona sottotraccia la politica da troppo tempo anziché nuovi argini trovi nuovi spazi. È ancora possibile discutere pacatamente di come evitare tali possibili derive?

 

Vedi anche:

Italianieuropei 3/2014
Agenda. Senza finanziamento pubblico non c'è politica

 



[1] Michele Serra, L’Amaca, in “La Repubblica”, 5 dicembre 2014.

[2] Angelo Panebianco, Modelli di partito. Organizzazione e potere nei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1982.

[3] Marco Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma 2011.

[4] Rod Hague, Martin Harrop, Manuale di Scienza Politica, Mc Graw-Hill Education, Milano 2011.

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