Il minuetto afgano: politica, sicurezza ed economia, tra ritiro dell’Occidente e revanchismo talebano

Written by Fabio Atzeni Friday, 25 July 2014 16:31 Print
Il minuetto afgano: politica, sicurezza ed economia, tra ritiro dell’Occidente e revanchismo talebano Foto: Damien Surgeon

A oltre un mese dal ballottaggio fra i due candidati alla presidenza dell’Afghanistan, le sorti del paese sono ancora lontane dall’essere definite. Il ritiro delle forze occidentali, il conseguente calo del PIL del paese, l’escalation di violenza dei talebani, gli endemici problemi della sicurezza costituiscono le sfide principali che il successore di Karzai dovrà affrontare.


Il ballottaggio tra i due candidati alle elezioni presidenziali afgane, Ashraf Ghani Ahmadzai e Abdullah Abdullah, tenutosi lo scorso 14 giugno, ha portato a esiti sicuramente inattesi rispetto a quanto prospettato dai risultati del primo turno elettorale del 5 aprile. Secondo le proiezioni dell’Independent Electoral Commission (IEC), l’organo ufficialmente deputato alla supervisione e gestione delle operazioni di voto, Ghani, sarebbe ora in forte vantaggio su Abdullah con il 56,4% delle preferenze, dopo un sorpasso storico dai tempi record, di circa un milione di voti, mentre al primo turno non avrebbe nemmeno superato la soglia del 32,5%

Questa situazione pone più di qualche dubbio in merito alla regolarità del voto, soprattutto per probabili brogli presso i seggi meno controllati, ad opera probabilmente di sostenitori del fronte pashtun, emersi anche attraverso intercettazioni telefoniche, che dimostrerebbero il coinvolgimento diretto dell’ex capo dell’IEC, Zia ul-Haq Amarkhail, nella manipolazione e sottrazione di schede elettorali.

Questi eventi hanno innescato, naturalmente, un’aspra contesa e una profonda crisi politica a Kabul, solo parzialmente coperta, da un punto di vista mediatico, dagli altri gravi eventi internazionali occorsi di recente in Iraq, a Gaza e in Ucraina. Contestualmente vi è stata una continua escalation di violenza da parte dei talebani e degli insurgents locali contro le forze governative afgane, per screditarne le capacità e ostacolare ulteriormente le attività di voto. La situazione è resa ancor più complessa dall’annuncio che il presidente Obama intende ridimensionare la missione di assistenza militare Resolute Support. Questa, previa la ratifica del Bilateral Security Agreement (BSA) da parte del governo di Kabul, prenderà il posto di ISAF da gennaio 2015 fino a dicembre 2016, anticipando di fatto il ritiro delle truppe.

Per flemmatizzare la situazione e spegnere la miccia di questa crisi, è stata necessaria la mediazione del segretario di Stato statunitense John Kerry, che si è recato a Kabul lo scorso 12 luglio e che, grazie a colloqui bilaterali separati, parrebbe aver ottenuto un primo, seppur timido, successo diplomatico. Nonostante l’iniziale contrasto tra i due candidati per il raggiungimento di qualsiasi compromesso, Kerry è riuscito a strappare l’accordo affinché siano verificati nuovamente circa 8500 seggi, circa il 40% del totale dei voti, con il sostegno di osservatori internazionali anche dell’ONU, per poi dichiarare definitivi gli esiti che ne scaturiranno.

Inoltre, grazie anche alla minaccia diretta del presidente Obama di un taglio immediato a tutti gli aiuti economici e militari al paese, è stata frenata l’iniziativa di Abdullah di dichiararsi vincitore e di prendere il possesso, con una rivolta, dei punti nevralgici del potere politico, e i due gruppi di candidati sono stati convinti ad accettare l’eventuale costituzione di un governo di unità nazionale, nell’ambito del quale il vincitore assumerà la carica di presidente della Repubblica, mentre lo sconfitto, il ruolo di Chief Executive: una sorta di primo ministro con funzioni ancora da definire e un mandato di circa due anni. Oltre a ciò, si è trovato anche l’accordo sulla necessità di avviare quanto prima delle riforme che consentano una governance più snella e trasparente e soprattutto la riforma delle commissioni di controllo elettorali, la già citata IEC e l’Election Complaints Commission (ECC), ancora troppo dipendenti per le nomine dalle decisioni unilaterali della presidenza della Repubblica.

Un governo di unità nazionale però, pur sembrando l’unica via possibile al superamento di questo stallo, non sarebbe certo una soluzione priva di altre problematiche. L’eventuale conferma di Ghani come vincitore, nonostante le articolate alleanze, messe in campo soprattutto da Abdullah e che numericamente avrebbero almeno dovuto garantire una riconferma dei risultati di aprile, pone seri dubbi sulla legittimità del voto e insinua sospetti riguardo al possibile ruolo di Karzai nel supporto del fronte pashtun, con il sostegno indiretto del Pakistan, al fine di mitigare l’azione dei talebani più moderati e mantenere ancora a lungo una forte influenza personale sul futuro governo afgano.

La vittoria di Abdullah, percepito come il rappresentante dell’etnia tagika e delle altre minoranze etniche legate all’ex Alleanza del Nord e al suo storico leader Massoud, potrebbe al contrario spingere molti pashtun tradizionalisti, specialmente nel Sud del paese ad avvicinarsi all’insurgency e ai talebani, con il rischio concreto di un deterioramento della sicurezza e di una spaccatura ancora più netta del paese. In questa prospettiva, nonostante gli ingenti sforzi per costituire due gruppi di candidati ripartiti etnicamente nella maniera più rappresentativa possibile, come auspicato dalla Costituzione afgana del 2004, considerati gli ultimi avvenimenti e per motivi di stabilità politica interna a livello tribale, in Afghanistan sembrerebbe ancora dominare la consuetudine che il leader del paese debba per forza essere espressione dell’etnia maggioritaria pashtun.

Al di là della sfida elettorale, l’obiettivo cruciale sarà la costituzione del nuovo governo in tempi accettabili per rispondere alle emergenze del paese, ovvero la sicurezza e lo sviluppo economico. Si è ormai certi però che il nuovo presidente afgano difficilmente riuscirà ad insediarsi per la data prevista del 2 agosto e le alleanze costituite tra personaggi così diversi e ostili tra loro faticheranno a resistere nei mesi a venire. Qualora si generasse una crisi di governo simile a quella del 2009, si rischierebbe una grave perdita di legittimità dello Stato che vedrebbe ulteriormente compromessa la propria capacità di risposta alla minaccia talebana, incidendo negativamente anche sulle forze di sicurezza afgane (ANSF) e sulle attese dei finanziatori della comunità Internazionale.


Le Forze Armate afgane tra legittimità e possibili derive autoritarie

La preoccupazione principale è il forte decadimento della sicurezza nel paese, la cui gravità è stata offuscata dalla “tempesta di sabbia” delle elezioni e dalle altre recenti crisi internazionali. Nonostante l’ottimismo di molti analisti occidentali riguardo all’efficacia e alle capacità di risposta delle ANSF, la realtà sul campo appare ben diversa: l’aumento degli attacchi da parte dei talebani, per la prima volta anche con armi pesanti, e la riconquista da parte loro di molti dei territori recentemente ceduti dalla Coalizione al governo afgano hanno messo in luce le debolezze delle forze militari afgane.

La mancanza di un piano operativo adeguato alle reali capacità delle ANSF evidenzia le carenze della catena di comando, della logistica, dell’amministrazione e la mancanza di una vera e propria aeronautica, fondamentale per il supporto alle operazioni di terra e per i trasporti logistici in un paese così vasto. Nonostante la scarsa desiderabilità di una carriera nelle ANSF, da cui deriva la difficoltà di reclutamento dei giovani diplomati – con la conseguenza di risorse umane di scarso livello e di un maggiore tasso di diserzione –, il 93% della popolazione vede con favore le forze di sicurezza e ritiene che in particolare l’esercito sia l’istituzione più leale e rappresentativa dell’Afghanistan. Da un punto di vista organizzativo e istituzionale, il problema principale delle ANSF, non è tanto il frazionamento etnico, da tenere comunque sotto controllo, ma le pesanti interferenze della politica nelle nomine dei comandanti di vertice: questo è il loro vero punto debole che ne minaccia la legittimità e la funzionalità.

In termini operativi invece, solamente se le ANSF riusciranno a mantenere il controllo delle aree chiave, delle città, delle aree più densamente popolate e delle strade principali, senza esporsi in zone di confine, rurali o montagnose, potranno rispondere adeguatamente alla minaccia talebana. Questo successo, in termini più pragmatici, rappresenterebbe la possibilità di prolungare i finanziamenti da parte della comunità Internazionale oltre a quelli già stanziati fino al 2017, nell’ambito della Conferenza di Tokyo. In caso contrario, il fallimento delle forze armate afgane, frustrerebbe le attese dei donatori internazionali con l’inevitabile conseguenza di una grave crisi politica a Kabul e di una crisi morale delle ANSF stesse, creando i presupposti per due possibili scenari: un frazionamento etnico delle forze armate e una guerra civile su larga scala; oppure un golpe militare guidato dai vertici pashtun dell’esercito contro un governo corrotto, con il probabile assenso del Pakistan. Le ANSF, il cui costo di addestramento ha superato negli ultimi dieci anni i 60 miliardi di dollari, sono l’istituzione più forte, più organizzata e meglio finanziata. Pertanto, in caso di una grave emergenza nazionale, la possibilità di un’evoluzione golpista costituirebbe un’ipotesi del tutto plausibile e forse più desiderabile di una guerra civile, che riporterebbe rapidamente il paese agli orrori degli anni Novanta.


Il triangolo USA, talebani, governo afgano

L’aumento della partecipazione al voto degli afgani è un segnale positivo che indica la voglia di stabilità da parte della maggior parte della popolazione. Ciononostante, è difficile che la situazione possa cambiare nel breve termine. Gli americani sono in netto ritardo nell’adozione di misure e politiche di peacemaking con i talebani, avendo da sempre privilegiato gli aspetti militari della sicurezza e della transizione rispetto a quelli politico-diplomatici della riconciliazione.

Il recente tentativo di spostare il focus dalle operazioni militari al tavolo dei negoziati sembra non avere successo. A eccezione della fazione talebana di Hekmatyar – che sembrerebbe volersi reintegrare nel processo di costituzione del nuovo governo attraverso il “filtro” del partito islamista Hezb-e-Islami (HIA), di cui Hekmatyar rappresenta la fazione estremista e armata (HIG) –, le altre fazioni talebane (la Quetta Shura Taliban di Omar e la Haqqani Network di Haqqani) non hanno intenzione di trattare. Esse, infatti, non intravedendo alcun vantaggio personale, si sono opposte fermamente a qualsiasi trattativa diretta con gli Stati Uniti, annunciando anche l’avvio di una nuova offensiva contro le truppe governative e straniere.

Anche i colloqui di pace tra il governo afgano e i rappresentanti moderati dei talebani di Omar, voluti da Karzai, sono stati recentemente interrotti a causa dell’arresto a Dubai di uno dei principali negoziatori talebani, Aga Jan Mutassin, ex ministro delle finanze del governo talebano, e dell’assassinio del governatore ombra talebano di Kandahar, Abdul Waseh. Questi eventi, successivi al primo turno elettorale hanno sicuramente contribuito ad aumentare le tensioni tra Washington, talebani e governo afgano.

Inoltre, l’annuncio a sorpresa del ritiro anticipato di 9800 soldati americani e dei circa 1600 alleati italiani e tedeschi, previsti nell’ambito della Resolute Support Mission, entro la fine del 2016, preoccupa molti analisti e agita fortemente i vertici del governo e delle forze armate di Kabul.

Oltre il 2017 dovrebbe rimanere in Afghanistan un contingente statunitense di circa un migliaio di uomini, con compiti prevalenti di counterterrorism, e migliaia di operatori di compagnie private di contractors, come la Leidos o la Dyncorp International, nell’ambito degli accordi tra Washington e Kabul sulla Strategic Partnership prevista fino al 2024. Quest’annuncio ha sicuramente rafforzato nei talebani l’idea che gli occidentali vogliano abbandonare il paese al più presto, convincendo anche i rappresentati più moderati a sospendere qualsiasi trattativa con un governo afgano, che sembrerebbe con ogni probabilità destinato a implodere.

Per risposta, Washington sta cercando di coinvolgere i principali attori regionali, con lo scopo di condividere gli oneri dell’assistenza e della stabilizzazione dell’Afghanistan e per cercare di intavolare un processo negoziale più pressante nei confronti dei talebani. L’ingresso dell’Afghanistan come membro osservatore nella Shanghai Cooperation Organisation lo scorso 1° aprile 2014 e la recente assegnazione da parte di Pechino di un rappresentante speciale cinese per l’Afghanistan, l’ex ambasciatore a Kabul e New Delhi Sun Yaxi, sono da considerarsi primi passi verso l’inserimento di questo paese nelle più ampie dinamiche regionali dell’Asia centrale. Infine, resta da vedere come si evolveranno le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Iran del presidente Rouhani e se sarà possibile, nel lungo termine, ritrovare l’intesa sull’Afghanistan raggiunta nel 2001.


Le sfide del prossimo presidente

Chiunque sarà il vincitore delle elezioni presidenziali, si troverà ad affrontare delle sfide cruciali per il futuro del paese. Il prossimo presidente afgano, infatti, oltre a cercare di instaurare un nuovo governo che riesca effettivamente a controllare le aree chiave del paese, dovrà cimentarsi sul tema spinoso dello sviluppo economico, strettamente correlato alla possibilità di mantenere il vastissimo apparato militare di cui è dotato e dal quale dipende completamente per la propria sopravvivenza. Da ciò deriva anche la possibilità di garantire la continuità dei vitali finanziamenti da parte della comunità internazionale anche oltre il 2017.

Economia e sicurezza sono legate biunivocamente e a loro volta sono influenzate dalle dinamiche del ritiro delle forze della NATO. Il 2014, ha visto un netto calo del PIL reale del paese, poiché l’economia afgana è pesantemente “drogata” dalla presenza delle truppe e delle imprese occidentali. Con l’avvicinarsi del ritiro e dei probabili disinvestimenti di molte corporation, è aumentata vertiginosamente l’inflazione e il deprezzamento della valuta locale. È quindi difficile pensare che senza un’inversione di questa tendenza il governo afgano possa provvedere da solo al mantenimento delle proprie forze armate, che costano annualmente circa quattro miliardi di dollari, in altre parole un quinto del PIL reale (dati della Banca mondiale risalenti al 2012).

Attualmente Kabul può corrispondere solamente un ottavo di questa cifra (circa 500 milioni di dollari), benché abbia promesso alla Conferenza di Tokyo che riuscirà a coprire l’intera somma entro il 2017. Per tali ragioni, saranno fondamentali anche i possibili futuri flussi di investimenti diretti esteri di Cina, India, Russia e Iran.

Oltre a ciò, il futuro presidente afgano dovrà trovare una nuova via per ripristinare il processo di riconciliazione con i talebani e reintegrare gli insurgents. Entrambi i candidati sono considerati nemici dai talebani, in particolare Abdullah per il suo passato legato all’ex Alleanza del Nord, come dimostrato dall’attentato contro di lui dello scorso 6 giugno a Kabul. Eventuali trattative saranno quindi molto difficili, soprattutto in seguito al rafforzamento talebano in molte aree del paese, un tempo completamente stabilizzate dalle forze di ISAF.

Infine, il futuro presidente dovrà decidere quale approccio avere nei confronti del Pakistan e dell’India che, da sempre, cercano di espandere la propria influenza in Afghanistan. Se l’intraprendenza economica e la cooperazione militare con l’India saranno sempre più necessarie per Kabul, è altresì innegabile la forte influenza culturale di New Delhi su gran parte della popolazione afgana, che guarda programmi indiani alla televisione, ascolta musica indiana alla radio, desidera vestirsi all’indiana e ambisce a far studiare i propri figli in India. Gran parte della classe dirigente afgana ha studiato in università e accademie indiane, nell’ambito di uno dei più longevi programmi di scambio culturale.

Questo grande leverage politico-culturale su Kabul, mette in difficoltà il Pakistan, che al contrario ha sempre cercato di facilitare l’instaurazione di governi islamisti pashtun a esso favorevoli. Per tali ragioni, nonostante Islamabad stia lanciando numerose offensive contro i talebani pakistani del Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), che si sono recentemente divisi in moderati e estremisti, continuerà con ogni probabilità a destabilizzare l’Afghanistan in funzione anti-indiana, sostenendo un rafforzamento del fronte pashtun. A dimostrazione di ciò, dopo l’elezione di Modi, lo scorso 23 maggio 2014, i talebani hanno lanciato un attacco contro il consolato indiano di Herat.

Se tutti questi temi non saranno affrontati al più presto e in maniera incisiva, si aprirà quasi sicuramente un’ampia crisi politica a Kabul, con grosse ripercussioni sulle ANSF e quindi sulla loro capacità di mantenere la sicurezza, avviando una spirale negativa di eventi che potrebbero facilmente portare alla guerra civile. In una situazione di simile emergenza, l’unica istituzione forte e organizzata in Afghanistan, l’esercito, potrebbe tentare un colpo di stato. Se nel breve termine un tale sviluppo potrebbe condurre a una maggiore stabilità, rassicurando parzialmente gli Stati Uniti e i paesi confinanti, nel lungo termine una dittatura militare sarebbe molto più turbolenta e rischierebbe di soccombere in seguito a rivolte e disordini, come già accaduto ai regimi che si sono instaurati militarmente nel 1973 e nel 1978. Inoltre, un regime militare, comprometterebbe anche tutti i progressi fatti da un punto di vista dello sviluppo umano e democratico del paese, rendendo vano molto del lavoro fatto da ISAF e compromettendo inevitabilmente l’immagine degli USA e dell’Occidente quali paladini della democrazia e dell’universalismo dei diritti fondamentali dell’uomo.

 

 


Foto: Damien Surgeon

le Pubblicazioni


copertina_1_2024_smallPuoi acquistare il numero 1/2024
Dove va l'Europa? | L'approssimarsi del voto per il rinnovo del Parlamento europeo impone una riflessione sulle proposte su cui i partiti e le famiglie politiche europee si confronteranno | Leggi tutto