Le elezioni in Afghanistan tra continuità e cambiamento

Written by Fabio Atzeni Tuesday, 15 April 2014 11:07 Print

Le elezioni presidenziali in Afghanistan costituiscono un momento decisivo per il paese, non solo e non tanto perché potrebbero segnare un passo avanti nella crescita democratica del paese, ma soprattutto perché consegneranno al successore di Karzai l’onere di stabilizzare il paese proprio mentre si conclude la missione ISAF. E se i tempi di formazione del governo si allungheranno , come si teme, fino all’autunno, il rischio è che il paese finisca per cadere preda della “guerra per bande”.


Da tempo l’Afghanistan non rappresenta più la priorità strategica per gli Stati Uniti, ma il sacrificio di oltre duemila cittadini americani e la spesa di circa 13 miliardi di dollari sottolineano quanto il teatro sia ancora rilevante a fronte degli obiettivi politici nella regione: impedire che l’Afghanistan torni a essere il rifugio di terroristi internazionali; controllare gli arsenali nucleari del Pakistan, contribuendo al contempo alla sua stabilità; stabilizzare le relazioni fra i vari attori regionali. Secondo l’ex ambasciatore americano in Afghanistan Ronald Neumann, il passaggio fondamentale che permetterà di raggiungere questi obiettivi, ancorché nel lungo termine, sarebbe rappresentato dalle elezioni presidenziali ancora in corso, che si auspica possano svolgersi in modo “accettabile” per regolarità e frequenza degli elettori. Ma cosa s’intende per processo elettorale “accettabile” in Afghanistan?

Innanzitutto, le elezioni devono garantire un’effettiva transizione di potere tra il presidente uscente Hamid Karzai e il suo successore, e la formazione di un nuovo governo in grado di operare senza subire eccessivamente l’influenza dei detentori del potere reale: i vari signori della guerra, i comandanti talebani locali, alcuni membri del governo in carica e alcuni rappresentanti delle principali tribù pashtun del paese.

Secondo Michael O’Hanlon, senior fellow presso la Brookings Institution, le elezioni in Afghanistan potranno ritenersi un successo se saranno invalidati meno del 20% dei voti espressi e se i candidati sconfitti non contesteranno i risultati. Le commissioni di controllo, l’Independent Electoral Commission (IEC) e l’Election Complaints Commission (ECC), che per la prima volta non hanno membri stranieri, dovranno dimostrarsi imparziali nonostante le intimidazioni da parte degli insurgents e la grande influenza di Karzai, da cui sono dipese le nomine dei membri principali e dei rispettivi presidenti. Nonostante vi siano dei limiti e un’elevata probabilità che le operazioni di voto subiscano alcune irregolarità, non bisogna essere tentati di delegittimare il processo elettorale per queste imperfezioni tipiche di una giovane democrazia ancora instabile.

 

Segnali di cambiamento?

Le elezioni presidenziali del 2014 stanno dando alcuni segnali positivi. Innanzi tutto l’affluenza è aumentata di circa il 20% rispetto al 2009, con la partecipazione di circa il 60% degli aventi diritto. In secondo luogo, la violenza e gli attacchi sarebbero diminuiti rispetto a cinque anni fa e sarebbero rivolti per lo più agli osservatori internazionali o ai giornalisti stranieri, giunti nel paese per le elezioni. Il dato è significativo e dimostra come i talebani stiano cercando di riconquistare la fiducia popolare persa negli anni a causa della loro politica del terrore.

Ciononostante, vi è un elevato pericolo di brogli, soprattutto presso i seggi nel sud del paese, dove l’etnia maggioritaria è quella pashtun e il pericolo di attacchi da parte dei talebani e degli insurgents a essi associati è davvero elevato. Per evitare la dispersione di voti dell’etnia maggioritaria del paese, potrebbero esservi delle operazioni irregolari di raccolta e riempimento delle urne con schede elettorali provenienti da altre zone, come successe nel 2009, in particolare nel secondo turno elettorale. In tale occasione vi fu una rimonta “inaspettata” del candidato pashtun Karzai. Inoltre, per consentire lo svolgimento delle elezioni nelle aree più pericolose, sono stati stretti degli accordi tra i talebani locali e alcuni membri del governo, come confermato dal capo del National Directorate of Security (NDS) Amrullah Saleh.

Per tali ragioni, secondo Sarah Chayes, senior associate del Carnegie Endowment for International Peace, l’evento elettorale non deve essere sovrastimato come passaggio fondamentale ma, se si vuole pervenire allo scopo principale, che consiste nella formazione di un nuovo governo sufficientemente stabile, bisogna accettarne i potenziali limiti di trasparenza. Gli elementi di continuità rispetto al passato saranno molti, a partire dagli attori che in seguito a estenuanti trattative decideranno più delle elezioni la composizione finale del governo.

Ciò considerato, tutti e tre i principali candidati, Abdullah Abdullah, Ashraf Ghani Ahmadzai e Zalmai Rassoul, andrebbero bene per l’Occidente. Tuttavia, ognuno di loro caratterizzerebbe in modo assai diverso il futuro governo afgano.

Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri del primo governo Karzai, benché sia di padre pashtun e madre tagika è considerato appartenente all’etnia tagika soprattutto per i legami con il leggendario Ahmad Shah Massoud, il leader carismatico dell’Alleanza del Nord. Per tali ragioni, difficilmente otterrà il supporto delle popolazioni pashtun del sud del paese. Inoltre il Pakistan, percependolo come una potenziale minaccia, potrebbe aumentare il proprio sostegno ai talebani con un conseguente aumento della violenza e dell’instabilità dell’Afghanistan.

Ashraf Ghani Ahmadzai, invece, è di etnia pashtun, è un famoso economista, già ministro delle Finanze del precedente governo Karzai, mediatore nel processo di riconciliazione con i talebani e presidente dell’High Peace Council. Ahmadzai è però percepito come un tecnocrate, lontano dai problemi reali degli afgani. Inoltre non ha un’adeguata rappresentanza tagika nel suo entourage e il suo vice, e vero leader carismatico della sua squadra di governo, è l’uzbeko Abdul Rashid Dostum, un ex criminale di guerra degli anni Novanta, inviso sia ai pashtun sia ai tagiki.

Zalmai Rassoul che sembrerebbe essere il terzo candidato in ordine di gradimento, sarebbe il favorito di Karzai. È un pashtun conservatore, che ha vissuto gran parte della sua vita a Roma dov’era il medico personale del re afgano in esilio Zahir Shah. Rassoul non minaccia di portare eccessivi cambiamenti, al contrario, sembrerebbe assicurare una certa continuità, specialmente per la famiglia Karzai che avrebbe sicuramente una grandissima influenza sul suo eventuale governo. Il fratello del presidente Karzai, Qayum, ha rinunciato alla propria candidatura per sostenere Rassoul con i propri voti. Oltre a questi vantaggi, la squadra di governo avrebbe un ottimo bilanciamento della rappresentanza etnica e vice di Rassoul diventerebbe Ahmad Zia Massoud, fratello di Ahmad Shah Massoud. I forti legami con la famiglia Karzai, tuttavia, potrebbero anche rappresentare il tallone di Achille di Rassoul che rischierebbe di perdere il supporto popolare a causa della grande sfiducia che gli afgani nutrono nei confronti dell’attuale governo Karzai.

 

Le elezioni afgane: un problema di tempo

Secondo la maggior parte degli analisti, molto difficilmente i candidati otterranno più del 50% dei voti al primo turno. I fatti sembrerebbero suffragare questa valutazione con la conseguenza di una dilatazione dei tempi per il conteggio dei voti, per organizzare e svolgere il secondo turno elettorale e, successivamente, per le trattative per la formazione del nuovo governo.

Con ogni probabilità il nuovo presidente e la sua squadra di governo non saranno in grado di operare prima di agosto e, secondo le stime più pessimiste, addirittura non prima di ottobre o novembre.

Ciò che più preoccupa gli americani è quindi il rischio che non sia ratificato il Bilateral Security Agreement (BSA), ossia il trattato bilaterale tra Kabul e Washington che consentirebbe la permanenza degli Stati Uniti e della NATO in Afghanistan dopo il 2014, per continuare ad assistere e ad addestrare le Afghan National Security Forces (ANSF). I piani del Pentagono prevedono un contingente militare composto per due terzi da forze americane e per un terzo dagli alleati della NATO, con due diverse ipotesi numeriche: l’ipotesi minima prevede circa 6000 soldati statunitensi e 2000 provenienti dai paesi alleati della NATO; mentre quella massima ne prevede rispettivamente 8000 e 4000. In entrambi i casi andrebbero poi aggiunte alcune migliaia di unità militari americane destinate al counter-terrorism e diverse migliaia di contractors civili che sostituiranno le truppe, soprattutto in attività logistiche, di intelligence e in alcuni casi anche nell’addestramento e nell’istruzione delle Forze armate e di polizia afgane. Oltre a questi piani, la Casa Bianca ha dichiarato che l’opzione zero, ossia il ritiro completo delle truppe occidentali dall’Afghanistan è tenuta ancora in considerazione, qualora il BSA non sia ratificato in tempi ragionevoli (presumibilmente entro fine anno), per consentire al Pentagono di pianificare le operazioni per l’anno successivo.

Dal buon esito delle elezioni dipende quindi il futuro della sicurezza dell’Afghanistan che, nonostante i grandi miglioramenti delle ANSF, che conducono oramai il 90% delle operazioni, potrebbe subire nei prossimi mesi un degrado consistente, anche a causa del progressivo ritiro degli Stati Uniti e della NATO dal paese. L’elezione di un nuovo governo e la sua stabilità sono anche un requisito necessario per vedere confermate le donazioni e i finanziamenti alle ANSF da parte della comunità internazionale. Se nel prossimo futuro le ANSF dovessero rimanere all’attuale livello di 352.000 unità, il costo annuo per il loro mantenimento sarà di 6 miliardi di dollari, un onere eccessivo anche per la comunità internazionale che al momento è stata in grado di fornire circa 3 miliardi di dollari annui a fronte di una collaborazione del governo afgano di soli 500 milioni. Questi finanziamenti sono vitali per Kabul e da essi dipende completamente la sopravvivenza delle ANSF e la conseguente condizione di sicurezza del paese, che nel triennio 2015-2018 potrebbe deteriorarsi ulteriormente anche a causa del probabile riemergere della minaccia talebana e del conseguente ritorno delle milizie anti-talebane dei signori della guerra locali, come quelle di Ismail Khan nella provincia di Herat, l’Alleanza del Nord e gli uzbeki di Dostum nel Nord.

Il vero problema non sarà dunque “chi” e “come” vincerà le elezioni, ma “quando” sarà formato il nuovo governo e soprattutto “quando” sarà firmato il BSA. Solo allora si potrà comprendere se gli obiettivi strategici americani saranno perseguibili davvero e se tutti i sacrifici finora sostenuti in tredici anni di guerra saranno valsi a qualcosa. Il rischio della destabilizzazione dell’Afghanistan e di un possibile ritorno alla “guerra per bande” potrebbe far perdere tutti i progressi ottenuti in questi anni e potrebbe in futuro, obbligare Washington a tornare in questo paese a un costo sicuramente superiore.[1]



[1] É ciò che afferma l’ex ambasciatore USA in Afghanistan R. Neumann, sostenendo che un Afghanistan nel caos avrebbe conseguenze dirette anche sulle altre questioni di politica estera.

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