Obama vince sulla politica estera

Written by Emiliano Alessandri Tuesday, 23 October 2012 13:34 Print
Obama vince sulla politica estera Foto: Barack Obama

L’incontro sulla politica estera ha concluso il ciclo dei dibattiti presidenziali prima delle elezioni del 6 novembre. La sfida, vinta da Barack Obama, porta a 2-1 la partita fra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Se per Romney la battaglia si fa dunque più dura, il presidente è finalmente riuscito nell’intento di regalare ai suoi elettori un’idea per il futuro.


Il terzo e ultimo dibattito televisivo della campagna elettorale americana ha visto una netta affermazione di Barack Obama. E la vittoria del presidente in carica si deve non solo alla vigorosa difesa del suo impegno internazionale nei quattro anni del mandato che sta per concludersi, ma alla scelta di avere messo al centro della discussione, dedicata alla politica estera, il futuro dell’America. Nel corso del faccia a faccia Obama è tornato ripetutamente sul tema del nation building at home, adottando finalmente uno slogan forte e a effetto (per quanto non nuovo), che, se fosse stato utilizzato più di frequente nei due dibattiti precedenti e nelle battute di una campagna elettorale giocata principalmente sui temi della politica interna, avrebbe potuto offrire quella visione per il secondo mandato che in molti – dagli elettori ancora indecisi a quelli più esigenti all’interno del Partito democratico – aspettavano con ansia.

Senza assumere neanche per un momento un accento neoisolazionista e senza franare neanche un passo verso il populismo – nemmeno su temi che si sarebbero ben prestati, come la “sleale” competizione cinese – Obama ha argomentato con forza e dovizia di particolari che il futuro dell’influenza americana – quella “leadership del mondo” con cui il suo rivale Mitt Romney farcisce spesso i proclami di politica estera – dipenderà molto dalla capacità dell’America di rifondarsi e riscattarsi come nazione. Di qui i riferimenti del presidente – in alcuni casi più circostanziati che nei dibattiti precedenti – al progetto di una riforma profonda del settore dell’istruzione, al rilancio delle infrastrutture, passando per priorità non più derogabili, come la riduzione del deficit, e obiettivi forse finalmente alla portata, come l’indipendenza energetica.

Il candidato repubblicano ha invece perso un’occasione importante, mancando non solo un eventuale affondo ma anche l’obiettivo, più limitato e tuttavia importante, di un sostanziale pareggio prima del voto. Romney avrebbe potuto mettere in forte difficoltà il presidente mostrando come su quasi tutti i principali dossier di politica estera, dalle guerre chiuse frettolosamente ma senza una chiara vittoria in Iraq e Afghanistan al “reset” con la Russia, passando per il Medio Oriente, il bilancio internazionale di Obama sia stato nel complesso piuttosto modesto. Continuando su questa linea, Romney avrebbe anche potuto cogliere nel segno evidenziando come il tentativo di Obama – senza dubbio comprensibile e ragionevole – di riconoscere i limiti della potenza statunitense dopo l’uso scellerato e controproducente del potere durante i controversi anni di Bush, si sia troppe volte tradotto in politiche reattive o attendiste, che non solo non hanno indotto i “rivali dell’America” a un comportamento più mite, ma che in alcuni casi hanno anzi consentito loro un atteggiamento più assertivo e intransigente.

Romney, invece, ha quasi cercato di mitigare i contrasti e circoscrivere gli elementi di dissenso, nel chiaro tentativo di deflettere le critiche delle scorse settimane che lo accusavano di avere politicizzato serie e complesse questioni di sicurezza nazionale per fini puramente elettorali. Il candidato repubblicano ha, tra le altre cose, evitato di calcare ulteriormente sull’episodio controverso e ancora poco chiaro dell’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens e di altri tre americani al consolato statunitense di Bengasi – rinunciando così allo strumento forse più efficace per contestare alcuni dei successi in politica estera di Obama, come la sconfitta del terrorismo islamico attraverso l’eliminazione di Bin Laden e l’indebolimento di al Qaida. Seguendo le istruzioni dei suoi strateghi elettorali, i quali volevano a tutti i costi evitare che Romney apparisse militarista, ideologico e avventuristico come George W. Bush, l’ex governatore del Massachusetts ha spesso smussato le sue posizioni, finendo addirittura per sostenere – con scarsa credibilità e ancor meno effetto – che la carenza di leadership americana in Medio Oriente, per la quale ha più volte criticato il presidente, dovrebbe essere colmata con politiche per lo sviluppo, prima ancora che con nuove prove di forza.

Pur non rinunciando ad alcuni brevi ma intensi duelli con il presidente su chi dei due dimostrerebbe di avere il polso più fermo – dall’Iran alla Russia, passando per la Cina – Romney ha insomma preferito presentarsi come prudente e “presidenziale”. In questo modo ha, però, contraddetto alcune delle posizioni assunte in precedenza su vari temi internazionali e, soprattutto, si è posto l’obiettivo impossibile di apparire più rassicurante del commander in chief, moderato almeno quanto il suo rivale accusato fino a ieri di arrendevolezza, e infine più presidenziale del presidente stesso. A differenza di Obama, poi, Romney non è riuscito a spostare con successo la discussione dalla politica estera ai temi interni, come sarebbe invece accaduto se avesse prontamente ribattuto che il nation building at home dovrebbe cominciare proprio con il licenziamento di un presidente che non è riuscito in quattro anni di governo a rilanciare l’occupazione e a contenere il debito.

La prestazione di Romney avrebbe potuto essere peggiore. Dopotutto, il candidato repubblicano ha dimostrato una certa conoscenza dei principali temi internazionali che non poteva essere affatto data per scontata. Nel tentativo, apparso come fuori tempo massimo, di moderare toni e contenuti, Romney ha tuttavia fatto affermazioni importanti che sicuramente piaceranno a diplomatici ed esperti, inclusa quella sulla Cina, definita come un potenziale partner degli Stati Uniti nonostante i suoi attuali comportamenti siano stati bollati senza mezzi termini come scorretti. Di fronte a un presidente in forma (come o forse più che nel dibattito precedente, in cui aveva già prevalso), Romney avrebbe però dovuto evidenziare i contrasti, evitando al contempo di apparire ideologico o pretestuoso nelle critiche. Il candidato repubblicano avrebbe anche potuto continuare a sviluppare l’immagine del businessman di successo, fautore di una razionalizzazione della politica estera americana attorno al principio di un forte apparato di difesa – proprio per evitare nuove azioni militari all’estero verso cui gli americani hanno sviluppato una certa allergia – e di limitate iniziative internazionali, principalmente volte a creare le condizioni necessarie per il sorgere di nuove opportunità per l’economia americana. Anche se non del tutto assenti, questi elementi non si sono composti in un messaggio chiaro, semmai si sono confusi con gli altri fino a produrre significative incoerenze e numerose contraddizioni.

A maggior ragione se Obama comprenderà le ragioni del suo successo di lunedì sera e svilupperà ulteriormente il tema della ricostruzione dell’America, la contesa si farà meno equilibrata di quanto auspicato dai repubblicani. La partita, ancora una volta, non è affatto chiusa e le due settimane che rimangono prima del voto del 6 novembre non mancheranno di riservare altri sviluppi e forse colpi di scena. Ma se dopo il secondo dibattito la strada era tornata a essere in salita per Romney, dopo il terzo la salita rischia di diventare una parete verticale.

 

Le opinioni qui espresse non riflettono necessariamente quelle del German Marshall Fund of the United States.


Foto: Barack Obama

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