Giustizia per i “cancellati” sloveni

Written by Anton Giulio Lana Monday, 16 July 2012 17:11 Print
Giustizia per i “cancellati” sloveni Foto: Corrado Scropetta

Con una sentenza storica pubblicata il 26 giugno 2012, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha messo la parola fine alla drammatica vicenda dei “cancellati”, condannando in via definitiva il governo sloveno per la violazione dei diritti dei cittadini della ex Jugoslavia che, a seguito della dichiarazione di indipendenza della Slovenia nel 1991, erano stati cancellati illegalmente dai registri dei residenti permanenti e avevano così perso qualsiasi status giuridico.


La vicenda affonda le proprie origini negli anni Novanta del Novecento ed è strettamente connessa alla dissoluzione della ex Jugoslavia, evento che, come noto, ha rappresentato l’occasione – o forse la scusa – per perpetrare molteplici, gravissime violazioni dei diritti umani. Si è trattato di un intervento di “pulizia etnica” silenzioso, realizzato in via amministrativa, attraverso il quale un numero rilevante di cittadini della ex Jugoslavia sono stati privati della “residenza permanente”. Lo status di “residente permanente”, invero, consentiva a ogni cittadino membro di uno Stato della ex Jugoslavia di risiedere in un altro Stato membro e di godere dei diritti civili e politici ivi riconosciuti (incluso il diritto di voto alle elezioni amministrative e ai referendum), di accedere al sistema sanitario e di svolgere un’attività lavorativa. Conseguentemente, tale status rappresentava per i cittadini di uno Stato membro della ex Jugoslavia l’unica chiave d’accesso ai diritti sociali, civili e politici all’interno di un altro Stato membro, attraverso la quale diventavano “cittadini” nel senso pieno del termine, secondo un’accezione di cittadinanza non più meramente etnica ma anche funzionale e fattuale.

Prima del 25 giugno 1991, data in cui la Slovenia ha acquisito l’indipendenza, i ricorrenti avevano la doppia cittadinanza, sia quella della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, sia di una delle sue Repubbliche costitutive, diverse dalla Slovenia. In quanto cittadini della Repubblica di Jugoslavia, i ricorrenti hanno acquisito lo status di residenti permanenti in Slovenia, status che hanno conservato sino al 26 febbraio 1992. In tale data, i loro nomi sono stati cancellati dal Registro sloveno dei residenti permanenti, stante la mancata presentazione della richiesta per la cittadinanza slovena entro il termine di sei mesi dall’entrata in vigore della legge sulla cittadinanza. Oltre 170.000 residenti sloveni, già cittadini della Repubblica di Jugoslavia, hanno presentato domanda nei termini e si sono visti concedere la cittadinanza del nuovo Stato sloveno.

Invece, tutti coloro che, per le ragioni più varie, non avevano presentato richiesta per l’acquisto della cittadinanza slovena, o ai quali la richiesta era stata respinta, hanno perso qualsiasi status giuridico, divenendo così stranieri o apolidi illegalmente residenti in Slovenia. Le conseguenze ricollegabili all’assenza di un qualsiasi stato giuridico sono gravissime: il ritiro dei documenti, lo sfratto dai propri appartamenti, l’impossibilità di svolgere un’attività lavorativa, la perdita dei beni di proprietà, dell’assistenza sanitaria e previdenziale e, in alcuni casi, anche l’espulsione dalla Slovenia.

Chiamata a riesaminare la sentenza resa in primo grado da una Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo il 13 luglio 2010, la Grande Camera della medesima Corte, con la richiamata sentenza del 26 giugno scorso, ha confermato, nella sostanza, la responsabilità del governo sloveno per gli effetti della cancellazione sulla sfera privata e familiare dei ricorrenti, i quali sono stati costretti a vivere per circa venti anni in condizioni di totale insicurezza giuridica e di abbandono materiale e morale. In particolare, respingendo integralmente le difese del governo sloveno, la Corte ha riscontrato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, e dell’articolo 13, che tutela il diritto a un rimedio interno effettivo, per il persistente rifiuto delle autorità slovene di regolarizzare la posizione giuridica dei ricorrenti in conformità alle statuizioni della Corte costituzionale slovena (che si era più volte pronunciata a favore dei cancellati) e per l’inadeguatezza della nuova legge adottata nel 2010 al fine di rimediare alla situazione. Il fatto che quasi tutti i ricorrenti si fossero visti riconoscere la residenza permanente nel corso del giudizio non è stata ritenuta sufficiente dalla Corte a farne venire meno la qualità di vittime. La Corte europea ha altresì condannato la Slovenia per violazione del divieto di discriminazione sancito dall’articolo 14 della Convenzione europea, in quanto i cittadini della ex Jugoslavia hanno ricevuto un trattamento più sfavorevole rispetto agli stranieri, i quali – a seguito dell’indipendenza – avevano potuto mantenere il loro status giuridico all’interno dell’ordinamento sloveno.

La Corte europea ha ritenuto che i ricorrenti abbiano diritto a una riparazione pecuniaria per i danni sofferti a causa delle violazioni, liquidando in loro favore un risarcimento di 20.000 euro a titolo di danno morale e riservandosi di decidere sulla quantificazione del danno patrimoniale. Inoltre, la Corte ha condannato il governo sloveno a istituire entro un anno un sistema di compensazione dei danni subiti da tutti i cancellati (circa 25.000 persone), estendendo così gli effetti della sentenza anche a coloro che non avevano fatto ricorso.

La sentenza della Corte europea restituisce ai ricorrenti, sia pure in modo tardivo e parziale, la dignità perduta nel lontano 1992, e il fatto che essa sia destinata a spiegare i propri effetti anche nei confronti di tutti i cancellati che non abbiano partecipato al giudizio dinanzi alla Corte accresce la fiducia e la soddisfazione nei confronti di una battaglia – quella relativa al riconoscimento della cittadinanza come valore universale – che merita di essere combattuta in ogni sede. Ciò al fine di evitare che le numerose codificazioni di tale diritto, contenute in molteplici strumenti convenzionali, rischi di rimanere una sterile proclamazione, priva di qualsiasi effetto nella società contemporanea.

 

 


Foto: Corrado Scropetta

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